Qualche tempo si parlava molto di BRICS. Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Le economie emergenti. Con tassi di crescita elevatissima. Capaci di mutare l’assetto dell’economia globale e disegnare l’ipotesi di un sistema multipolare delle relazioni internazionali. In queste ultime settimane non sono stati pochi gli analisti a sottolineare come l’ascesa virtuosa di questi Paesi sembri poter soffrire un graduale ridimensionamento. Per la prima metà del 2014, la crescita media del gruppo dei BRICS è prevista attorno al 4.5%. Assai al di sotto della media del 6% del 2000. La Russia, con il suo sistema statalista ed autocratico, rischierebbe di compromettere la propria posizione e performance economica a causa della vertenza Ucraina e delle tensioni con i Paesi occidentali. Le sanzioni economiche adottate a Washington e Bruxelles potrebbero, nel medio-lungo periodo, danneggiare ulteriormente il Cremlino.
La Cina continua certamente a registrare tassi di crescita impressionanti, ma forti squilibri territoriali (città-campagna) sono ritenute una sfida assai delicata per un Paese fondato su un forte debito pubblico ed un sistema finanziario distorto. Il Brasile, che ospiterà i prossimi mondiali di calcio, è in preda ad un duro conflitto sociale. Gli investimenti esteri sarebbero in picchiata. Ma non solo. La crescente criminalità che sconvolge il Paese solleva forti dubbi sulla solidità della futura performance economica. Rispetto all’India, il pericolo della stagflazione – combinazione di lenta crescita economica ed alti tassi d’inflazione – non sembra scongiurato. Non se la passa infine meglio il Sud Africa. In piena campagna elettorale, con il settore dell’industria estrattiva paralizzato da agitazioni sindacali, la nazione che aspira alla leadership del continente africano si è vista recentemente privare del titolo di prima potenza economica della regione.
Mentre gli analisti continuano a interrogarsi sulla realtà dei BRICS, c’è già un altro gruppo di Paesi che sembra aprire un nuovo capitolo nel processo di sviluppo delle economie emergenti. È già “pronto” un nuovo acronimo inglese. PINE. Ovvero Filippine, (Philippines in inglese), Indonesia, Nigeria ed Etiopia. Quattro economie che sembrano scoppiare di salute. Aprire preziose opportunità di investimento. Offrire una nuova narrativa dell’economia globale. Un nuovo tentativo di alleviare la povertà in una realtà combinata inter-regionale popolata da 600 milioni di persone, con effetti potenzialmente benefici per molti altri paesi dell’Asia e dell’Africa.
Le Filippine non esportano più solo milioni di collaboratori domestici per le famiglie benestanti delle ricche economie occidentali. La diaspora filippina – stabilitasi nelle capitali europei, a Dubai e ad Hong Kong – ha trasferito ricchezza nel paese d’origine con la sua mole enorme di rimesse. Le Filippine sono diventate oggi l’economia più dinamica dell’Asia. Il tifone abbattutosi l’anno scorso sull’arcipelago non ha messo in ginocchio il Paese. Le previsioni sulla sua crescita complessiva per il 2014 si attestano complessivamente oltre il 7%. In gran parte trainata dalla ricostruzione seguita alla catastrofe naturale. Le analisi delle principali istituzioni finanziarie internazionali confermano l’ipotesi di ritmi simili per il prossimo quinquennio. L’amministrazione del presidente Aquino ha allo studio un piano straordinario per le infrastrutture, basato sulla proliferazione di partnership publico-privato, del valore complessivo di 16.8 miliardi di dollari.
L’Indonesia è stata invece protagonista di un interessante comeback. Già annoverata all’indomani della fine della Guerra fredda tra le nuove economie emergenti, l’instabilità politica e i conflitti regionali ne avevano frustrato clamorosamente le opportunità di crescita. Una crescita che era sembrata compromessa dalla crisi del 1997. Aumento costante degli investimenti esteri diretti, stime di crescita del prodotto interno lordo oltre il 6% per i prossimi anni, un mercato assai dinamico dei beni di consumo, una sistema politico stabile. Sono questi gli elementi che renderebbero oggi l’Indonesia una delle realtà più interessanti tra le economie emergenti. La rinascita dell’Indonesia è però minacciata da nuovi pericoli di violenze legati alle tensioni separatiste nel Paese, dalla corruzione endemica nella pubblica amministrazione e da un pericoloso trend di nazionalismo economico che sembra scoraggiare più massicci investimenti esteri.
Alcuni dei problemi che condizionano oggi l’Indonesia sono gli stessi che la Nigeria è chiamata ad affrontare con urgenza. Pur avendo scippato lo scettro di potenza regionale al rivale tradizionale del Sud Africa, il paese è alle prese con la furia sanguinaria del gruppo terrorista islamico di Boko Aram – che di recente è tornato ad attaccare la capitale Abuja – e con le croniche tensioni separatiste nella zona petrolifera del Niger Delta. Divisioni politiche all’interno del partito politico al potere (People’s Democratic Party) rischiano di minare la leadership del presidente cristiano Goodluck Jonhatan e spingere il Paese verso l’instabilità politica in concomitanza con le elezioni del prossimo anno. Se è vero che il ricchissimo settore petrolifero necessita di nuovi interventi finalizzati ad accrescere trasparenza e reprimerne gli episodi di corruzione, un mercato delle telecomunicazioni straordinariamente dinamico, lo sviluppo del sistema bancario ed una crescita impressionante delle costruzioni sono destinate a trainare la crescita della Nigeria per i prossimi anni. Una crescita che dovrà però essere ancora più sostenuta per ridurre l’esercito di giovani disoccupati che popola il Paese.
Success story è infine, senza dubbio, l’Etiopia. Il Paese ha confermato la propria stabilità politica nonostante la scomparsa, nell’agosto del 2012, del primo ministro Meles Zenawi, alla guida ininterrotta dell’ex colonia italiana per oltre 21 anni. L’Etiopia può essere considerata il Paese africano che più di ogni altro ha cercato con coerenza di promuovere la visione di un Developmental State, una macchina amministrativa impegnata nella gestione di un poderoso programma di sviluppo – il “piano di crescita e trasformazione” – pensato per assicurare una crescita del PIL di oltre il 10% all’anno per il periodo 2010-2015. Espansione delle infrastrutture, l’ambizione di diventare un hub regionale per la produzione e l’esportazione di energia elettrica mediante la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD, opera dell’italiana Salini), nonché lo sviluppo dell’industria agricola definiscono il quadro di una delle più dinamiche economie del continente africano. Non mancano, neanche qui, i problemi. Lo squilibrio tra zone urbane e rurali nel Paese, le profonde restrizioni all’impresa privata e agli investimenti esteri nel settore dei servizi si aggiungono alle continue critiche formulate contro il governo di Addis Abeba da parte di diverse organizzazioni internazionali per la preoccupante performance in materia di diritti umani (detenzione di giornalisti, arresti arbitrari di elementi dell’opposizione, etc.).
E’ dunque tra luci e ombre che l’avanzata di quattro nuove economie emergenti sembra offrire opportunità d’investimento inedite per le imprese più dinamiche e interessate a cogliere i benefici derivanti dalla creazione di nuovi mercati popolosi. Mercati composti da mezzo miliardo di persone, potenzialmente collegati a sistemi economici regionali e sub-regionali anche più grandi. L’ascesa dei PINE non evoca scenari suggestivi come la crescita dei colossi di Brasile, Russia e Cina ma è certamente destinata a sollevare, nei prossimi anni, un ampio dibattito sull’impatto delle politiche innovative di sviluppo e di programmazione economica nei Paesi del sud del mondo.