Scampato il pericolo di un «fallimento tecnico», l’America può concedersi un po’ di serenità e festeggiare come tradizione vuole l’appuntamento con Halloween. Tra zucche, streghe e zombie il popolo a stelle e strisce brinda al mancato «default» (solo un bluff in realtà per alcuni) ed esorcizza il rischio di ritrovarsi tra un paio di mesi, ovvero alla scadenze fissate da Congresso e Casa Bianca su spesa e debito pubblico, in una sorta di limbo dei «morti viventi». Ma la notte delle streghe potrebbe diventare assai lunga per Washington, dove la politica rimane imbrigliata tra gli steccati di partito, insensibile alle vocazioni imprenditoriali e totalmente inascoltata da Wall Street.
In occasione di Halloween, questa voce di New York vuole ragionare su cosa sta accadendo nella capitale americana simbolo di quella politica un tempo assai autorevole. Ma che oggi sembra in declino come in una di quelle opere gotiche che venivano recitate per la festività del 31 ottobre nell’Irlanda e nella Scozia di alcuni secoli fa, dove ancor prima delle zucche, erano le rape a farla da padroni. Quanto accaduto nei giorni passati ha evidenziato un profondo divario tra politica e imprese, con un Congresso di fatto incapace di raccogliere gli appelli della Corporate America perché si ponesse fine a un braccio di ferro che rischiava di far perdere soprattutto l’economia. Le lobby del «business» non riescono più a fare il loro lavoro, ovvero creare quelle pressioni sulla classe politica affinché le scelte legislative coincidano con le necessità delle imprese, e se possibile, col supremo interesse economico della nazione. Il motivo è da individuare nei Tea Party, il movimento ultra-conservatore al quale si ispira una porzione non esigua del partito repubblicano, nemici giurati dell’Obamacare (la riforma sanitaria voluta da Barack Obama), e che nelle ultime vicende politiche ha tenuto in scacco i moderati di partito.
«Stiamo cercando di contrastare l’ascesa di una nuova ondata di conservatorismo ideologico che definirei tra i più anti-establishment della storia», spiega David French, capo lobbysta della National Retail Federation, ovvero l’associazione che rappresenta il commercio al dettaglio. Gli fa eco Bruce Josten, numero uno della Us Chamber of Commerce, la più grande lobby degli affari negli Stati Uniti: «Vorremmo interlocutori di orientamento conservatore in fatto di business, ma che facciano di pragmatismo e realismo i criteri guida delle proprie azioni». Il punto è che la critica agli «ultra-con» arriva da un’associazione che ha speso 32 milioni di dollari per finanziare le elezioni del 2012, e quasi tutti destinati ai repubblicani. Come la American Bankers Association, del resto, l’associazione dei banchieri Usa che ha destinato l’80% dei suoi fondi al Grand Old Party rispetto al 58% del 2008.
Eppure anche tra loro c’è irritazione dinanzi all’oltranzismo dei Tea Party, la cui linea sta spingendo le lobby a un ripiego verso il centro. Lo spiega Mike Jackson, presidente di AutoNation, la più grande associazione di produttori di auto degli States. «Non è certo un bel momento per i repubblicani – dice – il mondo degli affari si chiede se il partito sarà in grado di curare questa disfunzione interna, o se sia il caso di far convergere sostegno e fondi verso un polo più centrista, che sia esso costituito da repubblicani o democratici».
C’è chi invece, tra gli imprenditori, vorrebbe giocare la carta della seduzione per conquistare le fasce più conservatrici del Gop, e ristabilire una certa influenza sul partito intero. E lo vuole fare assoldando la media impresa, ovvero quelle realtà produttive locali che sicuramente hanno un ascendente maggiore in certi distretti «deep-red» (il rosso è il colore del Gop), come Oklahoma e Kenutcky, ormai del tutto perso dai Big Ceo della Corporate America.
Le lobby tentano di reinventarsi, quindi, anche perchè in caso il quadro politico rimanga quello attuale, la lunga notte delle streghe di Washington rischia di trasformarsi in una «Zombieconomics» nazionale.