Provare a spiegare cosa accade e ipotizzare che cosa potrà accadere in Italia, forse lo potrebbe fare, ormai, solo Nostradamus; anche solo descrivere cos’è accaduto è arduo. Ridotta all’osso, la situazione è questa: nelle casse dello Stato, piaccia o no, non c’è il becco di un quattrino. Hai voglia a spronare il ministro Fabrizio Saccomanni a fantasie contabili e a uscire dalla mera logica dell’ulteriore aumento delle tasse. Con l’amaro realismo di chi per tutta la vita ha fatto i conti con le cifre e i numeri, Saccomanni vi dice brutalmente: “Zero più zero, fa zero. Lo possiamo moltiplicare all’infinito, ma fa sempre zero”. La sconsolata intervista rilasciata giorni fa al “Corriere della Sera” non lascia margini a illusioni: il tempo del “sudore, lacrime e sangue” non è finito; e occorre tirare ancora la cinghia. “Ho bisogno di un miliardo di euro. Da qualche parte deve saltare fuori”.
Si ipotizza l’aumento di un punto dell’IVA: una boccata d’ossigeno; che peraltro comporta inevitabilmente un aumento esponenziale di tutti i prodotti, e di conseguenza un’ulteriore contrazione delle spese da parte dei consumatori. Quello che si guadagna da una parte, lo si sconta parallelamente dall’altra.
Un sintomo della situazione è dato dalla confidenza che viene da una persona abituata a misurare le parole e a muoversi con cautelosa prudenza, l’ex ambasciatore italiano alle Nazioni Unite Francesco Paolo Fulci. Da qualche anno Fulci è presidente di “Ferrero Italia”, una multinazionale piemontese di cioccolato e merendine, il cui marchio è leader nel mondo, un’eccellenza guadagnata sul campo per consolidata reputazione ed affidabilità. Fulci, pacato e disincantato insieme, dice una cosa che dovrebbe suonare come un campanello d’allarme: “Per la prima volta, qui alla Ferrero, siamo preoccupati per il futuro del Paese e credo di poterlo dire a ragion veduta”. Da cosa nasce, la preoccupazione di Fulci e della Ferrero? Da quella che possiamo definire malattia endemica della classe politica e da quella di una pessima burocrazia centrale e locale che bloccano e paralizzano tutto.
Il presidente del Consiglio Enrico Letta, alla guida di un Governo che sembra il “Titanic” dopo lo scontro con l’iceberg, sempre più si aggrappa al presidente della Repubblica, sostenendo che con Giorgio Napolitano è impegnato a elaborare una legge di stabilità finanziaria equa e adeguata. Per frenare i furori del PdL che vuole il blocco dell’IVA e l’abolizione dell’IMU, Palazzo Chigi fa filtrare la notizia che si lavora a un piano complessivo delle aliquote: si cerca finalmente di disboscare una giungla fiscale nella quale ci si perde. Una difficilissima quadratura del cerchio. Anche perché dal PdL minacciano fuoco e fiamme.
Tutti i parlamentari azzurri hanno firmato una lettera di dimissioni e l’hanno consegnata a Berlusconi: se il Cavaliere, la settimana prossima la giunta voterà la decadenza di senatore di Berlusconi in seguito alla condanna definitiva sancita dalla Corte di Cassazione, annunciano che se ne andranno anche loro: “Se decade lui, decadiamo tutti”, è la parola d’ordine bellicosa di pasdaran come Maurizio Gasparri o Daniela Santanché. E qui non si capisce bene: intanto le dimissioni non si danno a Berlusconi, ma, semmai, ai capigruppo di Camera e Senato che le consegnano ai presidenti di palazzo Madama e di Montecitorio. Le dimissioni di massa, poi non esistono. Ci sono, sì, le dimissioni singole, una a una dibattute dall’aula, e in genere, in prima istanza, respinte. Se si deve seguire quell’iter, hai voglia…Poi: ma se Berlusconi vuole davvero far cadere il governo Letta, nella logica del “muoia Sansone con tutti i Filistei”, non era più semplice ritirare dal governo i ministri del PdL? E allora? Melina? “Mossa”? Chissà…
Berlusconi sa bene che esiste un ostacolo difficilmente valicabile, costituito da quel “grande vecchio” che siede al Quirinale. Napolitano non perde occasione per far sapere che mai scioglierà le Camere per andare a elezioni con il “Porcellum”; e la riforma elettorale è ancora lontana. Oltretutto, aprire ora una crisi, sarebbe un favore straordinario e inaspettato al Partito Democratico. Il PD in queste ore è preda del più completo caos. A poche settimane dal congresso che dovrà eleggere il nuovo segretario, non si sa ancora quali saranno le regole: quelle proposte dalla commissione per il congresso al momento sono semplici raccomandazioni. L’Assemblea che doveva approvarle è stata sospesa a causa del durissimo scontro sulle modalità di voto e sul cambiamento dello statuto. Alla fine l'Assemblea si è chiusa con un avvilente compromesso (“marmellata”, come dice un anziano leader della sinistra come Emanuele Macaluso): approvata la data del congresso, rimandato il nodo delle regole. Se ne riparlerà alla riunione della Direzione di fine settimana. Una situazione che fa dire al renziano Paolo Gentiloni l’assemblea del partito si è conclusa in modo catastrofico, “un auto da fè”.
Ce la potremmo cavare con una battuta: “situazione drammatica, ma non seria”. Dove poco seria è la classe politica che l’Italia si ritrova. E drammatica è quell’osservazione dell’ambasciatore Fulci, dice una cosa che dovrebbe suonare come un campanello d’allarme: “Per la prima volta siamo preoccupati per il futuro del Paese e credo di poterlo dire a ragion veduta”.