La grancassa dell’antimafia batte sempre su un tasto: l’efficacia della confisca dei beni ai mafiosi. In altre parole: lo Stato leva loro immobili, aziende, conti correnti, che diventano patrimonio di tutti. L’Italia vanta un’esperienza unica al mondo in questo senso, perchè è stata il primo Paese ad applicare la confisca dei beni ai mafiosi come metodo ordinario di lotta alla criminalità, tant’è che in Unione Europea la legislazione italiana è presa come punto di riferimento. Io conosco realtà nate sui beni confiscati che hanno un alto valore economico, oltre che simbolico. Nei terreni sequestrati alla mafia a Salemi è stato realizzato un centro di turismo rurale, “Il Ciliegio”, gestito dalla Fondazione San Vito, che fa riferimento alla Diocesi di Mazara, e che gestisce altri immobili e aziende agricole nel territorio. In alcune case confiscate ai boss di Cosa nostra sono sorti centri di recupero, case famiglie, mense. Diverse cooperative producono grano, uva, origano in terreni confiscati alla mafia. E l’immagine, ovviamente, è quella di prodotti buoni due volte, perchè nati da una terra non solo fertile ma liberata.
Tutto bene, dunque? Non proprio. Fuori dalle immagini alla “Mulino Bianco” e dagli slogan dei vari governi, l’utilizzo dei beni confiscati ai mafiosi è molto farraginoso, con notevoli complessità, che lo Stato non può (e non vuole…) semplificare.
Purtroppo questa è una materia in cui si ragiona più per propaganda che per altro. Faccio un esempio: il governo presieduto da Silvio Berlusconi, nel 2010, creò l’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati, un ente che ha il compito – finalmente – di procedere in maniera snella ed efficace alla gestione delle migliaia di beni confiscati. Per fare un esempio di cosa sia questo immenso patrimonio, ci sono catene di supermercati, villaggi vacanze, aziende di ogni tipo e pure… una tigre, sequestrata ad un boss della Sacra Corona Unita in Puglia. Una bella idea, realizzata male. L’Agenzia non solo è sottodimensionata, ma siccome la macchina della propaganda voleva che tutto diventasse spot per un governo allora travolto dagli scandali, si decise di creare la sede della struttura non a Roma o Milano, ma a Reggio Calabria, terra di ‘ndrangheta, certo, dove l’apertura di una struttura nazionale così importante ha un alto valore simbolico. Ma anche posto quasi impossibile da raggiungere… Morale: l’Agenzia ha serie difficoltà logistiche a lavorare perchè da Reggio dovrebbe controllare e gestire beni che stanno in Sicilia come ad Aosta.
C’è poi un’altra cosa da dire sui beni confiscati, un’amara verità che in molti fanno finta di non vedere. Nove aziende confiscate alla mafia su dieci falliscono nel giro di pochi anni. In altre parole: se lo Stato confisca un’azienda ad un mafioso, la fa chiudere. Quindi vale tra il popolo l’assunto che la mafia crea ricchezza – come mi ripetono spesso miei coetanei che hanno vissuto questa esperienza – e lo Stato toglie il lavoro.
L’azienda di un mafioso vive infatti in un contesto drogato: ha le banche dalla sua parte con linee di credito infinite, paga i fornitori quando vuole, non mette in regola i dipendenti, sa come eliminare la concorrenza. Poi arriva lo Stato, con un amministratore giudiziario, che cerca di imporre le regole. E il risultato è che con le regole del mercato e del diritto l’azienda fallisce.
Io sto seguendo da vicino, da anni, un caso particolare. E’ quello del Gruppo 6GDO di Castelvetrano. L’azienda apparteneva ad un prestanome di Matteo Messina Denaro, l’impenditore Giuseppe Grigoli. In poco tempo si era inserita nel ramo della grande distribuzione, e aveva scalato il marchio Despar (aprendo in provincia di Trapani ben 46 supermercati) e aperto l’unico centro commerciale della mia zona, “Belicittà”. Castelvetrano ha 30.000 abitanti, e il centro commerciale impiega 300 persone. Dati alla mano, è in proporzione come la Fiat a Torino.
La Direzione investigativa antimafia ha sequestrato sei anni fa a Grigoli (che sconta 12 anni di carcere) un patrimonio mobiliare e immobiliare di circa 700 milioni di euro. Dal dicembre del 2007 le sue proprietà sono state sequestrate, confiscate ed affidate ad un amministratore giudiziario di Palermo, Nicola Ribolla.
Confiscato il bene, lo Stato si è trovato a gestire questa azienda, che faceva numeri da record ma che, rientrata nel solco della legalità, si è sfaldata: i fornitori hanno cominciato a chiedere pagamenti sempre più stretti, molti clienti sono scomparsi (da un giorno all’altro, dalle mie parti, molti supermercati Despar hanno cambiato insegna o hanno abbassato le saracinesche), e anche le banche hanno dimostrato di non avere fiducia: “Lei non è il signor Grigoli, non possiamo darle fiducia” hanno risposto all’amministratore giudiziario – cioè al rappresentante dello Stato! – che chiedeva l’apertura di una nuova linea di credito. Ma che Paese è quello dove le banche danno fiducia ad un mafioso e non allo Stato? E bisogna anche aggiungere, per completezza ed onestà di ragionamento: chi controlla l’operato degli amministratori giudiziari?
Sono già fallite le aziende fornitrici di cui il Gruppo 6 possedeva la quota di maggioranza, come la “Provenzano Mozzarelle”, che forniva formaggi e latticini per gli scaffali dei supermercati. Una sorte simile è toccata anche alla “Special Fruit” da poco messa in liquidazione.
Tutto il gruppo è oggi in gravissime difficoltà.
“L’attività del Gruppo 6 Gdo Srl ha subito un forte calo nel fatturato, al quale si aggiunge la drastica diminuzione delle merci nei magazzini e, dunque, nei supermercati che, in mancanza di prodotti, rischiano di compromettere la loro attività”. E’ la denuncia di qualche giorno fa del sindacato che ha chiesto al Prefetto di Trapani di convocare un incontro per “valutare la situazione che si è venuta a determinare, anche in rapporto alle scelte imprenditoriali e amministrative adottate in questi anni”.
“Da diversi mesi – ha affermato Gancitano – i dipendenti del Gruppo 6 Gdo rappresentano una situazione di difficoltà finanziaria dell’azienda determinata da consistenti debiti con i fornitori, numerosi crediti difficilmente esigibili e, probabilmente, da alcune scelte errate che hanno aggravato la situazione economica dell’azienda”.
Morale di questa storia? Matteo Messina Denaro, il capo di Cosa nostra, dava lavoro, creava ricchezza. Lo Stato no.