In questi ultimi tempi – aggiungerei anni – il Bel Paese non è più lo stesso e la frase che ormai è sulla bocca di tutti da giovani a pensionati, è: “Andiamocene da qui!”. Ci troviamo per così dire tra l’incudine e il martello, da una parte abbiamo la crisi economica mondiale, dall’altra le nostre spinose questioni interne. L’Italia, l’antica culla della cultura, purtroppo è stata lasciata andare alla deriva, soprattutto negli ultimi anni… Attenzione ho detto “è stata” perché se questa situazione si è verificata, è colpa non soltanto della classe politica ma anche di noi cittadini. Con questa analisi socio-economica non si vuole annoiare il lettore già sufficientemente bombardato dalle solite notizie inerenti l’ingovernabilità del Paese o i vari principianti allo sbaraglio in politica, ma si vuole far chiarezza su punti a carattere internazionale poco menzionati o approfonditi.
First of all, basandoci sui dati ISTAT 2012 (disponibili qui, Indagine sugli italiani residenti all’estero, http://www.istat.it/it/archivio/64737), si evince che la stima congiunta del Ministero degli Affari Esteri e dell’Istat al 1 gennaio 2012 è di 3.916.023 italiani all’estero. D’altronde che questa stima fosse quasi completamente attendibile, non si aveva alcun dubbio, poiché grazie ai dati forniti nelle scorse elezioni, abbiamo avuto modo di scoprire che in base ai plichi elettorali inviati dalle Ambasciate e dai Consolati agli italiani residenti all’estero, si arrivava a ben 3 milioni e mezzo di elettori italiani residenti fuori dal loro Paese. Tanto per aprire una parentesi, senza approfondire troppo, nel 2011 secondo stime non ufficiali dello US Department of State i cittadini americani che vivevano all’estero erano 6.320.000 esclusi i militari.
Tornando a noi, paragonando i dati Istat 2012 con quelli assoluti del 2003 vedremo che c’è stato un incremento di parecchie unità ma la cosa più sorprendente -e ahimè forse più triste- è che continuando a leggere l’allegato si può notare, che il numero dei neolaureati, laureati e dottori di ricerca che si recano all’estero in cerca di migliori possibilità di carriera è davvero aumentato negli ultimi anni. Tuttavia, il livello di soddisfazione nel lavorare lontano dall’Italia è anch’esso incrementato. Per quanto riguarda invece le aziende italiane, la situazione è ancora più seria per via di fallimenti e delocalizzazione. Come si evince ormai partendo da giornali per arrivare ai social network, dall’inizio della crisi nel 2008 al dicembre 2012, secondo le stime fornite dalla CGIA (associazione artigiani piccole imprese Mestre), gli studi della Cribis D&B e come pubblicato anche recentemente su alcuni giornali, sono fallite ben 15 mila imprese a causa dei ritardi nei pagamenti da parte degli enti pubblici. L’economia italiana come ben sappiamo è costituita principalmente da PMI (Piccole e Medie Imprese) che rappresentavano nel 2010 il 94,8% delle aziende, con una dimensione media di 3,9 addetti. Anche i grandi marchi hanno chiuso i battenti (es. Malaguti, Richard Ginori e altri) o delocalizzato la loro produzione all’estero (es. Bialetti, la Golden Lady Company, ecc.). Inoltre, non è un segreto che anche i “colossi” –come la FIAT e l’Ilva- hanno dovuto fare i conti con la crisi. Di conseguenza le chiusure hanno comportato la perdita di migliaia di posti di lavoro, contribuendo a far aumentare il tasso di disoccupazione che continua la sua implacabile corsa. Interessante è osservare i dati raccolti su Doing Business 2013 (dati di riferimento giugno 2012) del World Bank Group, dove le economie dei singoli paesi sono classificate da 1 a 185 in base alla loro facilità nel fare affari. Sul podio vi sono le economie che presentano un ambiente più favorevole nell’avviare e far operare un’azienda locale tenendo conto di 10 indici quali ad es. numero di procedure, tempo e costi per avviare una azienda, connessione elettrica permanete e cosi via. L’Italia si colloca lontano dai primi posti, precisamente al 73°.
In poche parole per arrivare sul podio dove in prima posizione si trova Singapore, seguito da Hong Kong, Nuova Zelanda e Stati Uniti, di strada da fare ce n’è ancora parecchia ma l’importante è crederci e voler migliorare. A proposito di cambiamenti, uno dei tanti pesi che dovremmo iniziare a scrollarci di dosso è quello della corruzione nell’amministrazione pubblica. Secondo Transparency International che analizza e classifica il livello percepito di corruzione del settore pubblico di vari Paesi, con una scala da 0 (altamente corrotto) a 100 (molto trasparente), su 176 nazioni esaminate per il 2012, l’Italia si colloca al 72° posto con uno score di 42, mentre gli USA al 19° con uno score di 73. Al primo posto invece troviamo Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda seguiti da Svezia e Singapore. La situazione dunque è seria per il nostro Paese per non dire drammatica, se aggiungiamo tutti i casi di suicidio dovuti alla disperazione di cittadini che perdono il lavoro. Per di più i dati sono aggiornati soltanto al primo semestre 2012, il che ci fa dedurre, come già percepiamo, leggiamo e ascoltiamo tutti i giorni, le cose non stanno per niente migliorando, anzi. Comunque cerchiamo di essere positivi perché a tutto c’è un limite e come insegnano i libri di economia internazionale ad ogni ciclo di crisi, si sussegue un fase di benessere. Nell’attesa di tempi migliori dunque, mi auguro che soprattutto la nuova classe dirigente inizi a compiere le scelte giuste a livello politico, economico, fiscale e sociale, dando per primi l’esempio e mettendosi nei panni di chi non arriva a fine mese. Non esistono destre o sinistre, ma soltanto l’ITALIA.