A sinistra Jean-Claude Trichet
Non è la prima volta né l’ultima che l’Euro, quest’impostura farlocca, aleggia sinistro sulle nostre vite. Non c’è uno solo dei guasti sistemici di cui ormai quotidianamente si discute: la crescita zero, il debito pubblico dei singoli stati, il pericolo inflattivo, la volatilità dei mercati finanziari, con i loro mutevoli jingles propagandistico-apocalittici (ora va lo spread Bund-BTP), che non mostri la natura velenosa di questa presenza. Solo che non si deve dire, almeno per ora. Perché l’Euro è un protegeè di una (soi disant) intellighenzia raffinata e finanziaria, che ne ha armato la nascita e che, in particolare in Italia, si è costituita in lobby parassitaria e cinta di pretoriani in toga. Da ultimo impegnata ad amalgamare una mistura di ipocrisia salmodiante per cui il governo in carica sarebbe una colpa e l’aggressione della c.d. speculazione internazionale l’ennesima, inevitabile, giusta punizione. Goffamente subliminale il parallelo con le colpevoli lussurie private del Presidente del Consiglio, su cui, tra un’incompetenza e l’altra, è in procinto di aprirsi il sipario della collezione giudiziaria autunno-inverno. S’intende che l’affare non è, né può essere solo italiano. Infatti, a questa filigrana clericareggiante, consolidatasi lungo tutta la scorsa estate, si è recentemente riferito, sul New York Times, anche un carico da undici come Paul Krugman. Secondo il professore di Princeton e Premio Nobel, al livello dei vertici europei, tanto cari al tramestìo politically correct di casa nostra, “i problemi del continente sono una storia semplice, fatta di eccesso di debito seguito dalla punizione”. E questo atteggiamento starebbe per provocare un “Impeccable Disaster”. Vale a dire: le ascetiche preoccupazioni inflattive di Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, non solo non mitigano la crisi, ma la rilanciano. Perché impiccano le leve monetaria e fiscale sull’altare della stabilità dei prezzi, cioè sterilizzano ogni possibilità di reazione politica ed economica nazionale per mantenere l’Euro.
Il debito pubblico è frutto di politiche economiche spendaccione, con la conseguente necessità di “fiscal austerity” come ultima chance? Macchè, dice il professore: è vero il contrario. Intanto perché questa spiegazione se vale, vale solo per la Grecia e non per la Spagna né per l’Italia; e poi perché così agendo si impedisce ogni possibilità di crescita. Ciò che ciascun governo dovrebbe fare senza timidezze e senza risparmio è sostenere il debito pubblico nazionale, e nell’unico modo possibile: creando moneta. Ma, conclude sconsolato l’autorevole columinst, questo Spagna e Italia non possono più fare perché non hanno più la loro moneta: quindi dovrebbe farlo Trichet. Ma Trichet non lo fa. Così la tragedia continua.
Si chiedono imperiosamente manovre, manovre bis, manovre ter e chissà cos’altro, impedendo però che, allo scopo, si impieghino gli strumenti essenziali, fiscali e monetari, di ogni politica economica nazionale. Ribadiamolo. Di comprare il proprio debito creando nuova moneta, che sembra troppo bello per essere vero, scrive un eminente studioso e commentatore, non un qualsiasi ciarlatano.
L’Euro ci ha salvato dall’impoverimento strisciante che provoca l’inflazione palese, dicono. Quello che non dicono è che fino ad oggi ci ha impoverito assai più, e in misura che ciascuno può testimoniare, con l’inflazione occulta sostenuta e mascherata dalla Soglia Irrevocabile di Conversione: 1936, 27. Né dicono che è stato il Cavallo di Troia con cui sono state progressivamente esautorate le democrazia europee e, correlativamente, instaurate autocrazie sottratte a qualsiasi forma di valutazione e di consenso consapevole e diffuso.
Tutto questo perché? Tentiamo, all’ingrosso, una sintesi.
Venuto meno lo spauracchio del comunismo, quanto meno di quello in forme sovietiche, dall’inizio degli anni ‘90 in poi le democrazie occidentali hanno patito, diciamo così, un calo di tensione culturale e politica ed hanno gradatamente, ma fin qui inarrestabilmente, permesso che, al loro interno, l’asse del potere si spostasse dalla pur imperfetta e parziale dimensione delle istituzioni democratiche, leggibili e comprensibili da chiunque, a luoghi non elettivi e sempre più protetti da una coltre di impenetrabile mistero tecnicistico. Anche considerando il loro andamento ondivago, e facendo la tara alla semplificazione diacronica, resta però che per tutti gli anni ’50 (ricostruzione), ’60 (crescita e movimenti per diritti civili) ’70 (turbolenze e crisi) ’80 (distensione ed ulteriore crescita), non si è mai percepita un’apatia ed una stagnazione così pervicaci come si sono andate imponendo negli ultimi quindici anni.
Le società sottostanti vi hanno perso, ogni giorno di più, la loro capacità manifatturiera e questa palude ha inghiottito i luoghi della reale produzione, con tutti i loro inevitabili ma autentici conflitti; abbiamo preso ad inneggiare a servizi, a beni immateriali, al terziario. Ridottesi industria e commerci non elettronici, esplodeva la rivoluzione digitale, che creava la rete mondiale su cui la finanza liberata si moltiplicava e cresceva. Aveva cominciato Reagan a liberarla, ma la sua deregulation si sarebbe rivelata robetta al confronto di quello che, nella materia finanziaria, avrebbero fatto Clinton e poi anche George W. Bush. Vennero infatti gli anni ’90 e il WTO, la vera pietra miliare dell’incipiente nuovo secolo-millennio. La liberalizzazione degli scambi, col sostrato tecnologico e finanziario libero di espandersi e di penetrare in ogni ganglio della vita, di quella associata come di quella individuale, cambia radicalmente la natura delle istituzioni democratiche e dei luoghi della loro espressione. Sia istituzioni politiche che istituzioni economiche; cioè parlamenti, fabbriche, negozi. La fioritura di questo fenomeno epocale è suggellata, Oltreatlantico, dal crescente strapotere di Wall Street e, in Europa, dall’avvento dell’Euro e del Sistema Europeo delle Banche Centrali. L’uno e l’altro ad occupare il vuoto creato da poteri politici ridimensionati: in parte per demeriti propri, in parte non trascurabile per l’azione erosiva di un moto cultural-propagandistico favorevole e ispirato all’annunciato progresso finanziario. Correlativamente, nella dimensione quotidiana trionfano i centri commerciali e le telecomunicazioni, che vaporano piazze, strade e i connessi ritmi spazio-temporali; e le carte di credito, che vaporano le banconote e la loro attitudine a tradurre, con immediatezza elementare, il valore del lavoro e delle cose. La successione storica con il mondo del dopoguerra, com’è noto, assume la forma dello iato, cioè della brusca rottura. E come ogni rottura c’è chi rompe e c’è chi è rotto. Chi fa il lavoro sporco e chi ne raccoglie i frutti.
Così, in Italia, mentre a Washington si lanciava la finanza pervasiva, si preparava la Grande Liberalizzazione del WTO, lo scatenamento della Cina, e la Silicon Valley diventava il nuovo Big Bang, a Roma, la Prima Repubblica veniva passata per le armi dalla magistratura che, da lì in poi, sarebbe divenuto la sola istituzione del vecchio regime non solo rimasta in piedi, ma pure neo-depositaria di un potere di veto su qualsiasi vicenda o scelta delle istituzioni formalmente sovrane. Svuotata del suo più vistoso contenuto democratico (partiti di massa), l’Italia venne sul nuovo proscenio senza nessuno che ne rappresentasse e ne custodisse identità e forza nazionale. Le Partecipazione Statali, tesoro di tutti, furono prese d’assalto, proprio, e non a caso, mentre si preparava il varo dell’Euro. La nostra adesione alla moneta unica fu presentata come sola ancora di salvezza da un imminente disastro economico nazionale. Lo stesso di cui oggi si discute. Entrammo nel nuovo secolo disarmati e impauriti. Perdendo la lira, debitamente dileggiata come l’intera classe politica di governo, perdemmo rango internazionale e forza. Con la lira, e non con l’Euro, eravamo diventati quinta potenza economica mondiale; con la vituperata Prima Repubblica e i suoi partiti democratici avevamo occupato un posto di primaria importanza fra gli alleati della superpotenza americana. A Londra tutto questo andava di traverso. E, venuti meno gli obblighi della Guerra Fredda, come fa da quasi un secolo, tornò ad imbastire un suo ruolo tutorio verso l’Italia: priva ormai di potere fiscale (soggiogato dall’inganno dei parametri di convergenza), monetario (immolato alla BCE) e di autonoma ed autentica classe politica. Berlusconi è solo stato un tentativo germinato dal suo ventre più profondo e più autenticamente nazionale. Ma improvvisato e fuori mestiere. Perciò, nella sfaticante temperie di una guerra di posizione, formalmente giudiziaria, ma sostanzialmente finanziaria e geopolitica, destinato a soccombere.
Questo capolavoro storico-politico dobbiamo a Ciampi, a Prodi, a Scalfaro e a qualche altro padre della Patria, come l’Economist e La Repubblica, con la sinistra e manutengoli vari a fare da beoti portatori d’acqua.
Gli stessi (o le loro seconde e terze file) che dovrebbero tornare a salvarci e a restituirci un futuro. Amen.