Nessuna trattativa sul programma nucleare “sotto le bombe”. Il Governo iraniano ha escluso ogni apertura diplomatica finché continueranno gli attacchi israeliani nello stesso giorno in cui l’Europa tenta di riportare Teheran al tavolo dei negoziati.
Una settimana dopo l’inizio della sua offensiva, Israele ha dichiarato di aver colpito decine di obiettivi militari, tra cui impianti per la produzione di missili, un centro di ricerca coinvolto nello sviluppo di armamenti nucleari a Teheran, e basi nelle regioni occidentali e centrali della Repubblica Islamica.
L’ultima risposta iraniana è arrivata all’alba di venerdì: circa venti missili sono stati lanciati verso Israele, colpendo Beersheba, Tel Aviv, il Negev e Haifa. Almeno due i feriti, secondo il servizio ambulanze israeliano. I pasdaran hanno rivendicato l’uso di missili a lungo raggio e “ultra-pesanti” diretti contro installazioni militari, industrie belliche e centri di comando israeliani.
Sullo sfondo c’è l’attesa per la decisione della Casa Bianca su un possibile – e sempre più verosimile – intervento militare contro gli ayatollah. Donald Trump si è preso due settimane per stabilire se coinvolgere o meno le forze armate statunitensi. Un eventuale attacco americano potrebbe prendere di mira l’impianto di arricchimento dell’uranio di Fordo, protetto nel cuore della montagna e considerato inaccessibile a qualsiasi arsenale, eccetto le bombe bunker-buster a disposizione di Washington.
Venerdì, intanto, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi ha affermato di non voler “alcun dialogo con gli Stati Uniti finché Israele continuerà l’aggressione”. Nessuna preclusione invece ai tentativi di mediazione europei, cosicché il capo-diplomatico di Teheran è atterrato in mattinata a Ginevra per incontrare i colleghi di Francia, Germania e Regno Unito, oltre all’Alto rappresentante Ue per la politica estera, nella speranza – europea – di riaprire uno spiraglio diplomatico sul dossier nucleare.
La scelta della città svizzera non è casuale, dato che proprio lì nel 2013 fu siglato l’accordo iniziale sul programma nucleare iraniano, poi ampliato nel 2015. Gli Stati Uniti si ritirarono dall’intesa nel 2018 per decisione di Trump, mentre i colloqui più recenti sono stati bruscamente interrotti dopo gli attacchi israeliani del 12 giugno.
A Ginevra, il capo della diplomazia iraniana ha ribadito che “non ci sono margini per negoziare con chi partecipa ai crimini sionisti”, riferendosi agli Stati Uniti. Ma ha lasciato aperto uno spiraglio: “Dialogo sì, purché non si tratti di negoziati nel senso classico. Non ora”.
“Le discussioni di oggi – ha aggiunto – si concentreranno esclusivamente sul nucleare e sulle questioni regionali. Non parleremo dei missili”.
Due diplomatici occidentali hanno riferito che durante l’incontro sarà ribadita a Teheran la disponibilità di Washington a un confronto diretto, ma “nessuno si aspetta svolte”, ammettono.
Il ministro degli Esteri britannico, David Lammy, ha dichiarato che “esiste una finestra di due settimane per una soluzione diplomatica” e ha fatto tappa in Svizzera dopo aver incontrato a Washington il segretario di Stato Marco Rubio e l’inviato speciale di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff.
La Francia, attraverso il presidente Emmanuel Macron, ha promesso un’offerta negoziale “completa, tecnica e diplomatica”. Il titolare degli Esteri Jean-Noël Barrot ha telefonato a Rubio per anticipare i contenuti dell’incontro di Ginevra. Secondo fonti diplomatiche, “gli Stati Uniti restano disponibili a un contatto diretto con Teheran”.
Il ministro tedesco Johann Wadephul ha affermato che “ogni conversazione ha senso se l’Iran è davvero disposto a rinunciare in modo trasparente a qualsiasi sviluppo militare del nucleare”. I tre Paesi europei – Germania, Francia e Regno Unito – hanno già giocato un ruolo centrale nel negoziato del 2015, e minacciano ora di ripristinare le sanzioni sospese se Teheran non rafforzerà la cooperazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica.
Un alto funzionario iraniano ha chiarito che Teheran è disposta a discutere “limitazioni sull’arricchimento dell’uranio”, ma qualsiasi proposta di arricchimento zero “sarebbe rifiutata, soprattutto ora sotto i raid israeliani”.
I bombardamenti di Israele sono cominciati venerdì scorso con l’accusa che l’Iran sia ormai a un passo dalla costruzione dell’arma atomica. Teheran, che rivendica la natura esclusivamente civile del proprio programma, ha risposto con missili e droni in grande maggioranza intercettati dal sistema anti-missilistico israeliano Iron Dome.
Secondo l’agenzia Human Rights Activists News, con sede negli Stati Uniti, i raid israeliani hanno causato finora 639 morti in Iran, inclusi alti ufficiali e scienziati nucleari. Le autorità israeliane parlano invece di 24 vittime civili causate dagli attacchi iraniani.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato giovedì che la caduta del regime iraniano non rientra tra gli obiettivi ufficiali dell’offensiva di Israele, pur riconoscendo che potrebbe esserne una conseguenza indiretta.
“Il cambiamento o la fine di questo regime è innanzitutto una questione che riguarda il popolo iraniano. Non esistono scorciatoie su questo”, ha affermato in un’intervista alla televisione pubblica Kan. “Per questo motivo non l’ho mai indicato come un obiettivo. Può esserlo nei fatti, ma non è un fine dichiarato o formalmente perseguito”.
Netanyahu ha poi aggiunto che Israele dispone delle capacità per neutralizzare tutti gli impianti nucleari iraniani, indipendentemente dalla decisione che prenderà il presidente americano Donald Trump.
“Siamo in grado di colpire tutti i nostri obiettivi, tutti i loro impianti nucleari. Ma la decisione se unirsi o meno spetta al presidente. Lui farà ciò che ritiene giusto per gli Stati Uniti, io farò ciò che è necessario per lo Stato di Israele. E devo dire che, fino ad ora, ciascuno sta facendo la propria parte”.
Nelle scorse ore il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha ordinato ai militari di “intensificare gli attacchi contro i simboli del regime nella capitale”. In patria, intanto, la Repubblica Islamica tenta di compattare il fronte interno: manifestazioni di piazza sono state celebrate dai media di Stato come “giornate della rabbia e della vittoria”.