Mi sono rigirato per molti giorni fra le mani il biglietto della curva Z, dove il 29 maggio di 40 anni fa deflagrò a Bruxelles la tragedia dello stadio Heysel. Con la sensazione di dovermi considerare forse un miracolato.
Tutto inizia venerdì 24 maggio 1985 a Milano quando Salvatore Giannella, il direttore dell’Europeo (la testata per cui lavoravo), mi convoca per informarmi di aver concluso un accordo con l’ufficio stampa della Fiat: se la Juve, nella finale del 29 (a quell’epoca l’atto conclusivo andava in scena il mercoledì e non il sabato), avesse vinto contro il Liverpool la sua prima Coppa dei Campioni (allora la Champions si chiamava ancora così) l’avvocato Gianni Agnelli subito dopo la partita ci avrebbe concesso un’intervista in esclusiva. Un colloquio di una quindicina di minuti in un albergo nel centro della capitale belga. Il titolo del servizio era scontato: “La mia prima Coppa dei Campioni”. Era già quasi weekend, per le regole della Uefa non c’era più tempo per accreditarsi, dovevo comunque organizzarmi in fretta per il viaggio e per procurarmi un biglietto di ingresso all’Heysel, il fatiscente impianto che avrebbe ospitato l’evento.
Parto per Bruxelles lunedì 27 nel tardo pomeriggio. La mattina di martedì 28 vado negli uffici dello stadio e l’unico biglietto che riesco a rimediare, a un prezzo abbastanza contenuto, è quello per la curva Z riservata per metà alla tifoseria juventina non organizzata e per l’altra metà a quella inglese. Il mercoledì mattina, passeggiando per la Grand Place, incontro casualmente il collega Nazareno Pagani (a quel tempo capo della redazione romana dell’Europeo), giunto in Belgio anche lui per assistere alla partita con un charter per la tifoseria Vip predisposto da Alitalia. Dopo i saluti lo informo sul perché della mia presenza e gli dico anche che, essendomi incolpevolmente mosso con molto ritardo, avrei dovuto accontentarmi di un posto in curva. Nazareno sorride: “Non ti preoccupare, abbiamo ancora biglietti disponibili per la tribuna centrale”.

La sera arrivo allo stadio con un’ora e mezza di anticipo. Gli spalti sono già gremiti. Dopo una ventina di minuti noto un ondeggiamento degli spettatori nella curva Z ma non riesco a percepire lo scoppio del massacro. Alle 19:30, tre quarti d’ora prima del programmato calcio di inizio, gli altoparlanti cominciano a diffondere incessanti messaggi per la ricerca di personale medico. Dalle radio cominciano a delinearsi le prime drammatiche ricostruzioni. In curva Z è crollata una balaustra, ci sono morti e feriti. Subito dopo viene alla luce un assalto degli hooligans inglesi che avevano sfondato i vetri divisori per vendicarsi degli incidenti di un anno prima in Italia (finale di Coppa dei Campioni vinta ai rigori dal Liverpool contro la Roma) schiacciando o facendo precipitare nel vuoto gli inermi spettatori italiani.
Dalla curva opposta un gruppo di juventini inferociti della tifoseria organizzata cerca di invadere il campo per attraversarlo e andare a regolare i conti con gli assalitori. Ma vengono fermati da un appello di Edoardo Agnelli junior, dirigente della Juve e figlio dell’Avvocato. Che a sua volta era da poco atterrato con il suo aereo privato a Bruxelles in compagnia dell’amico Henry Kissinger. E che, secondo le ricostruzioni successive, solo una volta arrivato allo stadio era stato informato della catastrofe e nella certezza che l’incontro non si sarebbe più disputato aveva fatto marcia indietro per rientrare a Torino.

In realtà, anche se non erano ancora chiare le dimensioni della tragedia (alla fine si conteranno 39 morti e circa 600 feriti), alle 20:15 era diffusa la convinzione che la finale sarebbe stata rinviata. Non era mai successo nella storia della manifestazione internazionale che il calcio d’inizio non venisse fischiato con perfetta puntualità. Segue una interminabile pausa di incertezza, carica di tensione, in cui le autorità politiche e calcistiche si riuniscono per decidere il da farsi. Per rispetto alla vittime la prima idea è quella di annullare tutto. Ma poi prevalgono i timori per l’ordine pubblico. Se la finale non si fosse disputata quasi sicuramente Bruxelles si sarebbe trasformata in una giungla, con la caccia all’uomo per le strade fra le contrapposte tifoserie. Così le squadre vengono precettate e scendono in campo verso le 21:40, con quasi un’ora e mezzo di ritardo. Per la partita più surreale di tutta la storia calcistica.
Il primo tempo di un confronto abbastanza equilibrato, inevitabilmente condizionato dal dramma in corso, finisce 0 a 0. Verso il quarto d’ora della ripresa l’attaccante polacco della Juve Zbigniew Boniek viene falciato mentre fila verso rete ma qualche passo prima dell’ingresso in area. L’arbitro svizzeri Andre’ Daina, che segue l’azione a una ventina di metri di distanza (all’epoca non c’era ovviamente il Var), non ha esitazione ad assegnare alla Juve il calcio di rigore. Che è segnato da Michel Platini davanti alle macerie della curva Z semicrollata e con alcuni cadaveri ai margini ancora depositati sulle barelle. La Juve si aggiudica così la Coppa: la prima e per un tragico disegno del destino insanguinata.
Saltò ovviamente l’intervista. Quella sera stessa dovetti cancellare dalla mente l’evento sportivo e concentrarmi sugli hooligans che furono radiati dagli stadi di tutta Europa. L’Heysel fu demolito nel 1999.