Niente “invasione” da contenere, nessun afflusso di massa da gestire. Il contingente schierato a Guantánamo per fronteggiare l’emergenza migranti si ritrova oggi a presidiare un’area semivuota. Lunedì, all’interno della base navale statunitense nel sud-est di Cuba, erano trattenute appena 32 persone, tutte in edifici già esistenti. Le tende allestite all’inizio di febbraio, simbolo dell’annunciata stretta voluta dal presidente Trump, sono state rimosse. Rimane l’apparato: oltre 700 uomini tra militari e contractor, un rapporto di 22 agenti per ogni migrante.
A distanza di tre mesi dal lancio dell’operazione, il bilancio è impietoso, come racconta il New York Times. I numeri ufficiali raccontano che, dal 4 febbraio, sono transitati nella base 497 migranti. Nessuno è stato detenuto sotto i tendoni costati 3 milioni di dollari. La prima fase dell’intervento, secondo stime interne del Pentagono, è costata complessivamente circa 40 milioni.
Una cifra che ha suscitato dure reazioni in Congresso: “Si tratta di un’operazione insostenibile sul piano economico, priva di fondamento giuridico e che mina le garanzie del giusto processo”, hanno scritto i senatori democratici Gary Peters (Michigan) e Alex Padilla (California), che venerdì scorso hanno chiesto un’inchiesta al Dipartimento per l’Efficienza Governativa. “È uno spreco colossale di risorse pubbliche.”
Il memorandum d’intesa tra Pentagono e Homeland Security, firmato il 7 marzo, ha fissato i termini della missione. A Guantánamo possono essere trattenuti solo migranti considerati legati a organizzazioni criminali transnazionali o al narcotraffico. “Soggetti pericolosi”, secondo la definizione dell’amministrazione, sebbene basata su profili elaborati dall’ICE e non su sentenze di condanna. L’accordo esclude le famiglie di rifugiati cubani e haitiani accolte negli anni ’90 in tende simili, allora allestite per scopi umanitari. Oggi l’approccio è di natura esclusivamente detentiva e coercitiva.
Secondo una fonte del Dipartimento della Difesa, che ha chiesto l’anonimato, le strutture smontate nei giorni scorsi – le stesse che fecero da sfondo alla visita mediatica del segretario alla Sicurezza interna Kristi Noem lo scorso 7 febbraio – sono state inventariate e stoccate in vista di un eventuale utilizzo futuro. Per ora, però, nessun piano contempla il ritorno all’ipotesi di ospitare decine di migliaia di persone. L’accordo operativo prevede un regime a bassa intensità: “decine, non migliaia” di detenuti.
Nel frattempo, il traffico di deportazioni è proseguito sottotraccia. Dei 497 migranti trattenuti, 178 erano cittadini venezuelani poi trasferiti all’aeroporto di Soto Cano, in Honduras, dove li attendevano voli charter per Caracas. Il 23 aprile, un aereo partito dal Texas ha fatto scalo a Guantánamo per prelevare un migrante venezuelano e consegnare 174 espulsi – uomini e donne – a Soto Cano. In quella stessa giornata, risultavano detenute 42 persone di nazionalità non precisata.
Un altro gruppo di 93 nicaraguensi è stato rimpatriato in tre distinte operazioni lanciate il 3, il 16 e il 30 aprile. Altre due missioni – condotte il 31 marzo e il 13 aprile – sono invece finite al centro di un’inchiesta federale: secondo l’accusa, quei voli avrebbero portato migranti venezuelani a El Salvador in violazione di un’ordinanza della Corte distrettuale del Massachusetts, che vieta le espulsioni verso Paesi terzi senza un preavviso adeguato ai legali dei detenuti.
“La legge impone che chi rischia il rimpatrio verso Paesi potenzialmente pericolosi possa contestarne l’ordine in tribunale”, ha spiegato l’avvocata Trina Realmuto, direttrice della National Immigration Litigation Alliance. Il caso assume contorni ancora più opachi alla luce di un’intesa segreta fra Washington e San Salvador: in cambio di un compenso, il governo salvadoregno avrebbe accettato di detenere nei propri penitenziari i migranti venezuelani espulsi, rendendo così più agevole l’attuazione delle direttive imposte dalla Casa Bianca.
A difesa dell’operazione, il Dipartimento della Giustizia ha sostenuto che almeno uno dei voli – quello del 31 marzo – fosse “un’operazione militare condotta dal Pentagono”, e dunque non soggetta alle restrizioni imposte al DHS. Una distinzione formale che ora il giudice Brian Murphy ha deciso di approfondire, ordinando al governo la consegna di tutti i documenti e le comunicazioni interne relative alle missioni aeree.
Nel frattempo, il Pentagono ammette che ospitare 30mila migranti nella base cubana richiederebbe il dispiegamento di oltre 9mila uomini tra forze armate e ICE. Una macchina logistica ed economica che, allo stato attuale, nessuno sembra più disposto a sostenere. Nemmeno la stessa amministrazione che l’aveva invocata.