Quando l’università diventa trincea e la ricerca un atto di resistenza, l’America si scopre di nuovo divisa. Nelle scorse settimane, le facoltà di alcune tra i più prestigiosi atenei degli Stati Uniti, tutti appartenenti alla conferenza accademica nota come Big Ten, hanno lanciato una proposta senza precedenti: creare un patto di difesa reciproca contro le pressioni dell’amministrazione Trump.
La proposta, elaborata da professori e senati accademici di istituzioni come Indiana University, University of Michigan e University of Minnesota, mira a proteggere la libertà di insegnamento e la ricerca scientifica da quelle che vengono percepite come interferenze politiche dirette. Secondo quanto riportato dal quotidiano statunitense Washington Post, i promotori avrebbero sottolineato che “la libertà accademica è sotto attacco” e che le università non possono più permettersi di agire isolate.
Il progetto prevede la creazione di un fondo comune per sostenere spese legali, il coordinamento di strategie di comunicazione e, se necessario, l’avvio di azioni giudiziarie congiunte contro i provvedimenti federali ritenuti lesivi dell’autonomia intellettuale. I promotori avrebbero spiegato che “senza un fronte unito, ogni ateneo rischia di essere vulnerabile alle ritorsioni”.
La mossa è maturata in un clima di crescente tensione tra il mondo accademico e la Casa Bianca. Negli ultimi mesi, l’amministrazione Trump ha minacciato tagli ai finanziamenti e ha criticato pubblicamente le scuole accusate di non reprimere con sufficiente durezza le proteste studentesche, soprattutto quelle legate al conflitto israelo-palestinese. Alcuni docenti avrebbero definito questi attacchi come “un tentativo di intimidirci e di piegarci ai voleri del potere politico”.
A spingere per il patto è stato in particolare il corpo docente dell’Università del Michigan, che in una dichiarazione interna avrebbe invitato gli altri membri della Big Ten a “mettere da parte differenze storiche e rivalità sportive” per “proteggere il valore supremo dell’indipendenza accademica”.
Anche i vertici delle università, seppure con maggiore cautela, sembrano orientati a sostenere l’iniziativa. Un rettore anonimo avrebbe confidato che “in tempi straordinari, servono risposte straordinarie”, sottolineando come i campus non possano permettersi di “cedere il passo a pressioni che mettono a rischio secoli di cultura e di progresso”.
Il piano, ancora in fase di definizione, sarà discusso nelle prossime settimane in una serie di incontri riservati tra presidenti di facoltà e amministratori universitari. Se approvato, rappresenterebbe una delle più forti prese di posizione collettive del mondo culturale americano contro un presidente in carica.
L’iniziativa della Big Ten si inserisce in un contesto più ampio di tensione crescente tra le università americane e l’amministrazione federale dopo il caso di Harvard, che nelle scorse settimane si è ritrovata al centro di un duro scontro con la White House. Dopo aver rifiutato di aderire pienamente alle richieste governative in materia di gestione delle proteste studentesche, l’ateneo si è visto congelare circa 2 miliardi di dollari di finanziamenti pubblici destinati alla ricerca.
Secondo fonti interne, i dirigenti dell’università avrebbero denunciato “un uso politico dei fondi federali” e avrebbero definito la decisione di Washington “un pericoloso precedente” che minaccia l’autonomia accademica. Harvard ha poi avviato un’azione legale contro il governo, sostenendo che le misure adottate rappresentano una violazione diretta della libertà educativa garantita dalla Costituzione.
Il caso Harvard è servito da detonatore, convincendo molte altre istituzioni della necessità di adottare una linea più dura e compatta per difendersi dagli attacchi esterni.