Tra Cina e Russia è in atto una corsa alle materie prime mondiali e, per altro verso, allo smaltimento di produzioni inquinanti. Questa è una vera propria guerra tra due potenze mondiali. E c’è l’Africa nel mezzo.
Ad esempio, sul fronte della produzione fotovoltaica è la Cina a essere il primo Stato al mondo. La Russia, invece, non rientra neanche tra i primi venti Paesi. Di contro, sul fronte della produzione di gas Mosca è in testa e Pechino non è neanche tra i primi dieci. Infine, il Cremlino produce più del doppio del petrolio di quanto ne produce il Dragone.
Si tratta di due Stati esternamente amici, ma sottotraccia in forte competizione per l’emancipazione dell’uno verso l’altro e viceversa.
Lo dimostrano due fattori fra tutti:
- la Russia ha dovuto tentare la presa su tutto il territorio ucraino con la famosa “operazione speciale” per approvvigionarsi delle terre rare (di cui la Cina è il primo detentore mondiale) ed evitare di spingersi in Africa in situazioni già dominate o in via di consolidamento con nuovi rapporti di forza;
- la Cina, invece, compra debito pubblico africano da anni finanziando, al contempo, diverse infrastrutture nel continente così da potersi permettere manodopera a costo ancora più basso di quella cinese rispetto al proprio mercato interno.
Questi elementi consentono di capire come al centro degli interessi tra Russia e Cina ci sia proprio l’Africa. Non a caso Mosca, vista l’imponenza economica di Pechino nel continente attraversato dall’Equatore, ha diversificato con l’introduzione delle milizie Wagner al fine di dividersi (indirettamente) il campo: da una parte la Cina con la forza economica; dall’altra la Russia con la forza paramilitare. Due facce della stessa medaglia che, però, celano il conflitto non dichiarato tra i due Stati; conflitto che si riverbera sull’ideale peso che ognuno dei due Paesi assumerà nel Brics con la futura valuta monetaria unica.
Allora cosa c’entra la questione delle materie prime unita allo smaltimento rifiuti rispetto al peso politico nel Brics?
Uno Stato con più capacità di produzione rafforza il proprio cambio di moneta interna con la futura moneta unica Brics: ciò non significa che chi più esporta più vale. Anzi, è il contrario perché esportare in sé per sé non è sintomatico di virtuosità interna, ma di impoverimento sistemico se la propria moneta è debole. Stessa cosa vale sullo smaltimento dei materiali inquinanti all’estero.
Basti leggere i dati dell’Observatory of economic complexity (OEC) al 2022, in base ai quali la Russia non è tra i primi cinque Stati da cui la Cina importa e verso cui esporta; all’opposto Pechino è il primo Paese verso cui Mosca esporta (prevalentemente gas e petrolio) e il primo da cui importa con un differenziale di bilancia commerciale interna a netto favore di valore nominale delle esportazioni (quindi più il Cremlino esporta più tende a impoverirsi se la moneta cinese rimane debole).
Cosicché la Cina tende a rafforzare la propria economia controllando, crescentemente, il debito pubblico africano per fare in quei luoghi produzioni che tra cinque/dieci anni, i cinesi stessi non potranno più fare data l’elevazione del reddito pro capite e, quindi, l’aumento del costo di manodopera oltreché della qualità di vita. La Russia, dovendo correre a non accumulare stock di gas e petrolio (che, a causa della guerra in Ucraina, non vende più al mercato occidentale in via diretta), è costretta a vendere a quantità superiori (e a prezzo inferiore a seconda delle oscillazioni di mercato) alla Cina pur di non far fallire il mercato interno.
Sempre i dati OEC confermano che i mercati di export più importanti per la Russia sono Cina, India, Germania, Turchia e Italia, considerando che gli ultimi quattro insieme superano il valore di mercato del primo solo di circa un quarto. Questo significa palesemente che Mosca per mantenere intatti gli effetti della guerra in Ucraina deve sperare che Pechino continui a comprare gas e petrolio per la produzione interna e che continui a crescere.
Nel frattempo, salvo per le emissioni gassose e liquide, il Dragone considera il continente africano il primo partner per le grandi quantità di smaltimento di pannelli fotovoltaici che, si stima, tra qualche anno renderanno autosufficiente il mercato energetico cinese stesso, unito ad altre fonti rinnovabili.
Da qui la non più necessaria partnership di importazione di gas e petrolio dalla Russia, che dovrà immaginare una via nuova per sopravvivere come realtà economica e quindi come Stato basato economicamente sullo sfruttamento delle fonti di energia classiche.
Per questo Putin spinge per accelerare sul Brics e allargarlo: fare una sorta di Comunità economica (stile quella europea) con una nuova moneta grazie alla quale salvare lo Stato russo non dal debito pubblico, ma dalla impossibilità di vendita a prezzi redditizi delle proprie materie prime (questione ucraina a parte).
E questa è una guerra non dichiarata alla Cina, ma molto intuibile.
Sullo sfondo l’urgenza di chiudere la guerra ucraina e riaccreditare la Russia al livello economico-energetico internazionale.