Il veto di Musk e le imposizioni di Trump non passano al Congresso. È stata bocciata la proposta preparata da Mike Johnson per rispondere alla richiesta del presidente eletto di alzare il tetto del deficit. Per evitare lo shutdown, allo speaker della Camera non resta che trovare una opzione alternativa entro la mezzanotte di venerdì 20 dicembre. Altrimenti si fermano tutte le attività governative né ci saranno fondi per lo Stato federale e i repubblicani se ne devono assumere le responsabilità.
Donald Trump si sentiva come Luigi XIV: “lo Stato sono io”. Perché questa mossa Trump aveva voluto dimostrare ancora una volta che è in grado di alterare l’equilibrio legislativo del Congresso aumentando la sua autorità su tutto il governo federale che finora ha operato, per legge o per tradizione, con una certa indipendenza dall’interferenza politica del potere esecutivo della Casa Bianca.
Una decisione calcolata, concordata con il miliardario Elon Musk che guiderà il Dipartimento per l’Efficienza del Governo (Doge). Ma non solo. Trump voleva l’aumento del tetto di spesa, una cosa che Johnson non aveva preso in considerazione, dato che la sua proposta avrebbe finanziato le attività federali solo fino al 14 marzo demandando poi alla nuova legislatura, che entrerà alla Camera il 3 gennaio, le decisioni sul bilancio federale e sull’alzamento del tetto della spesa. Ma il presidente eletto la vuole ora, in modo da poter fare subito i tagli fiscali da lui promessi durante la campagna elettorale.
La bocciatura dell’accordo raggiunto da Mike Johnson con i democratici va ben oltre: sottolinea chi ha le leve del potere, un passo necessario per il neoeletto presidente per affidare ad agenzie indipendenti, come quella da lui creata per Musk, per portare tagli all’apparato federale sotto il diretto controllo presidenziale, sorpassando il Congresso. Trump vuole rielaborare la pratica del sequestro dei fondi federali, bloccando il denaro che il Congresso stanzia per programmi che a lui non piacciono, una tattica che in passato i legislatori vietarono a Richard Nixon. Ma non solo. Vuole togliere le tutele occupazionali a decine di migliaia di dipendenti pubblici federali, rendendo più facile sostituirli se vengono considerati degli ostacoli ai suoi programmi. E ha intenzione di esaminare i dipendenti delle agenzie di intelligence, del Dipartimento di Stato e della Difesa per rimuovere i funzionari che, secondo lui, si oppongono alle sue proposte.
Il brutale siluramento del piano dello speaker della Camera per cercare di evitare lo shutdown serve solo per mostrare a tutti che lui è il re, che può fare quello che vuole senza rispondere a nessuna autorità.
Secondo la Costituzione il sistema federale si divide in tre poteri distinti: esecutivo, legislativo e giudiziario. Ciascuno di questi rami ha sia la capacità per agire autonomamente, sia il potere di controllare gli altri due. Controllare, sia ben chiaro, non sostituire. Una visione mal vista da Project 2025, che la vuole sostituire con la “teoria esecutiva unitaria”, una versione massimalista del potere esecutivo del presidente che respinge l’idea che il governo sia composto dai tre rami separati. I sostenitori della teoria sostengono che l’articolo 2 della Costituzione conferisce al presidente il controllo completo del ramo esecutivo, quindi il Congresso non può autorizzare i responsabili delle agenzie a prendere decisioni o limitare la capacità del presidente di licenziarli.
Gli avvocati dell’amministrazione Reagan avevano preso in esame questa teoria mentre cercavano di promuovere il programma di deregolamentazione. Un’idea che la Heritage Foundation, autrice di Project 2025, ha rielaborato ora per Trump per portare le agenzie indipendenti sotto il suo controllo.
In passato il Congresso ha permesso che queste agenzie create dal ramo esecutivo potessero stabilire loro stesse le regole per la loro gestione. Ma lo ha fatto a condizione che il capo della Casa Bianca le usi per modificare, correggere e regolamentare settori specifici dell’apparato federale come la Federal Communications Commission o la Federal Trade Commission o l’Environmental Protection Agency, mettendo dei commissari che i presidenti nominano e che non possono licenziare prima della fine del loro mandato. Di sicuro le agenzie federali non sono state create per aggirare le disposizioni del Congresso.
Trump durante il suo primo mandato aveva già richiesto alle agenzie indipendenti di presentare i loro programmi alla Casa Bianca in modo che potessero essere revisionati per poter ottenere i finanziamenti federali per le loro attività. L’ordine venne approvato dal Dipartimento di Giustizia, ma mai attuato a causa dell’allora situazione politica, con la Camera a maggioranza democratica, dopo due impeachment e i numerosi casi giudiziari in cui era impelagato. Alcune delle preoccupazioni poi riguardavano anche come condurre le revisioni per le agenzie che sono guidate da più commissari e soggette a procedure amministrative e obbligano a riunioni aperte, nonché su come avrebbero reagito i mercati finanziari se l’ordine avesse intaccato l’indipendenza della Federal Reserve.
Ora tutte queste remore non ci sono più. Camera e Senato hanno la maggioranza repubblicana totalmente asservita alla Casa Bianca. Trump e suoi alleati continuano a ripetere che “ssere americani significa volere che il presidente abbia successo”, ma questa è un’affermazione pericolosa per la democrazia che del “check and balance” imposto dalla Costituzione ne ha fatto il nocciolo del sistema democratico. Le idee devono essere esaminate e le politiche costruite all’interno di questo sistema. Il presidente, alla fine dei conti, non è un re, anche se il prossimo inquilino della Casa Bianca è convinto di esserlo.