Un lungo reportage del New Yorker indaga sulla fuga dei ginecologi dal Texas, umiliati dall’impossibilità di curare le donne in caso di evento a rischio, e preoccupati per il timore di essere perseguiti, perché la legge sull’aborto non consente di intervenire se il feto è ancora vivo.
Un sondaggio pubblicato il mese scorso e realizzato da Manatt Health, una società di consulenza sanitaria con base a Los Angeles, rivela che il 76% dei ginecologi texani dice di non poter curare le pazienti in base a quanto prescriverebbe la medicina consolidata. Il 21% ha detto di aver già deciso di trasferirsi, o di stare valutando la cosa. Il 13% ha deciso di andare in pensione anticipata. Secondo il rapporto del Manatt Health lo Stato soffre di “una carenza in peggioramento senza precedenti” di ginecologi che colpisce “molto più pesantemente le comunità rurali e quelle economicamente svantaggiate”. Nella vallata del Rio Grande i programmi di tirocinio hanno visto un calo del 16% di candidature.
La maggioranza degli specializzandi in medicina ostetrica e ginecologica dichiara che prenderà in considerazione le nuove leggi sull’aborto quando deciderà se rimanere in Texas al termine della formazione.
Manatt Health, una società di consulenza sanitaria, ha intervistato tutti i membri dell’associazione professionale American College of Obstetricians and Gynecologists con sede in Texas, e ha ricevuto le risposte di 450 medici praticanti e 47 medici specializzandi.
Nell’estate del 2022, dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha cancellato la sentenza Roe v. Wade che proteggeva a livello federale l’aborto, il Texas ha reso l’interruzione di gravidanza un reato punibile con l’ergastolo. Esiste un’eccezione nel caso si tratti di salvare la vita della paziente, ma decine di donne si sono fatte avanti negli ultimi due anni, affermando di essersi viste negare le cure mediche necessarie a causa della legge.
In Texas come in altri Stati non si può intervenire sull’utero finché il battito cardiaco del feto è avvertibile. Secondo i dati della associazione ProPublica, sono almeno tre le donne morte in Texas: dell’ultima, Porsha Ngumezi , si è avuto notizia appena tre giorni fa. La storia è la stessa: giorni interi di sofferenza per un problema in stato avanzato di gravidanza, i medici che non intervengono o preferiscono altri metodi che un semplice raschiamento, infine la setticemia.
Almeno altre due donne sono morte in Georgia in condizioni simili.
I gruppi anti-aborto e i parlamentari repubblicani affermano che è chiaro quando i medici possono intervenire per praticare un aborto. I medici non sono d’accordo, come dimostra questo sondaggio. Quasi un terzo dei ginecologi del Texas ritiene che la legge non sia chiara e non capisce come si rapporti alla pratica medica, e il 60% teme ripercussioni legali.
Ma il Texas è solo uno dei 21 Stati dell’Unione dove adesso l’aborto è proibito o severamente limitato. E infatti il problema è più ampio. In Idaho, scrive il New Yorker, quasi un quarto dei ginecologi dello Stato se ne è andato e gli ospedali rurali hanno chiusi i reparti maternità: troppo a rischio. In Luisiana la cifra si eleva al 75%: in tre quarti degli ospedali delle zone rurali non si può più partorire.
La Texas Tribune a inizio ottobre aveva intervistato diversi medici texani. Anitra Beasley, ginecologa di Houston, ha detto che lei e altri medici si portano la paura della criminalizzazione nella stanza con la paziente, anche quando stanno trattando un aborto spontaneo o altre complicazioni della gravidanza: “Questo trasforma la situazione in qualcosa che riguarda me e il rischio che corro io, invece che la paziente e la sua situazione”.