Il cuore. Il cuore di Matteo Berrettini, che non l’ha mai lasciato solo. Che l’ha rimesso in piedi nei tanti, troppi momenti bui dei guai fisici. Che l’ha sostenuto davanti alla cattiva fortuna, in forma del Covid contratto alla vigilia del suo Wimbledon da favorito. Che gli ha permesso di superare l’ingiuria del gossip, il massacro degli odiatori da tastiera, la depressione di chi dubita di poter rinascere. Il cuore. Unito alla forza di un giocatore valoroso che vale i primi dieci del ranking e non il numero 35 attuale, oggi capace di tirar fuori dal cilindro un coniglio bellissimo sul finire del match cruciale. E poi naturalmente Jannik Sinner. Il numero uno del mondo va avanti come un caterpillar che piova o splenda il sole, travolgente chiunque sia l’avversario e qualunque sia la superficie, incurante di una giustizia (?) antidoping che lo tiene da mesi sulla graticola. Ormai le sue vittorie si danno per ordinaria amministrazione: gli spettatori vanno allo stadio come a teatro. Ma dietro c’è tanto lavoro e non tutto è scontato.
Ciò detto, ecco il risultato in estrema sintesi: Italia batte Australia 2-0 nella semifinale di Davis a Malaga. E domani l’ultimo atto fra gli azzurri, detentori del trofeo, e l’Olanda che non l’ha mai vinto. Non è stata una sfida facile, non lo è mai quando hai davanti gli Aussie. Loro di Coppe ne hanno 28 in vetrina, dietro solo agli Usa che l’hanno conquistata 32 volte. Sono a digiuno però dal 2003 e quell’assenza pesa eccome. Fra noi e i canguri è una storia di scontri epici. Quelli del ’60 e ’61 persi da Pietrangeli, Sirola, Merlo e Gardini sull’erba di Sydney e Melbourne. Quello del ’76 vinto al Foro Italico da Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli sui mostri sacri Newcombe e Roche, che aprì le porte all’impresa del Cile. E per finire la finalissima dell’anno scorso. Rispetto ad allora, sono cambiati i numeri due in singolare: Berrettini ha preso il posto di Arnaldi, Kokkinakis ha rimpiazzato Popyrin. In panchina invece sempre Filippo Volandri e Leyton Hewitt: l’ex numero uno che da giocatore ha vinto il trofeo nel 1999 e nel 2003. Dovranno riprovarci, anche stavolta non c’è stato nulla da fare.
Eppure il singolare più delicato — l’apertura fra i numeri due — s’era messo male. Berrettini ha ceduto la prima frazione a Kokkinakis senza capire come e perché, dopo quattro palle break non trasformate e un set point al servizio sul 6-5. Lì il nastro sfiorato di un nulla gli ha negato l’ace e negli sviluppi si è arrivati al tiebreak. Matteo è salito 6-4, quindi 6-5 ancora con la battuta a disposizione per chiudere. In quel momento però è entrata in campo la sfortuna, che non esiste ma nessuno l’ha avvertita di questo piccolo particolare: attacco profondo del romano sul rovescio dell’avversario, Thanasi lontanissimo colpisce male e incredibilmente il passante plana sulla riga di fondo. E’ una beffa, preludio all’epilogo immeritato: 7-6 per l’australiano in 66 minuti. E morale sottoterra. The Hammer è stato però bravissimo a non lasciarsi andare alla frustrazione. E’ ripartito sventando una pericolosissima palla break, finché sul 4-3 ha lasciato andare il dritto dello strappo. Il game successivo a zero è valso il 6-3 che ha portato la sfida in parità.
La frazione decisiva ha offerto nuovi rimpianti e nuove occasioni perdute dall’azzuro, nella sfida fra bombardieri che picchiano duro. Si è così giunti al 5 pari, Kokki al servizio e avanti di un quindici. Ma in quel frangente è accaduto qualcosa di irreale. Un momento magico, un jolly pescato dal mazzo, il colpo più bello del torneo. Berrettini, in disperato recupero sulla destra, ha arpionato la pallina con il dritto sulla riga di fondo: una uncinata di polso che s’è trasformata in un diagonale stretto, radente e imprendibile. L’australiano è rimasto immobile, l’espressione di un pugile che ha accusato un gancio al fegato. Stordito e incredulo, ha smarrito il game e nel successivo Matteo non ha esitato: spingendo a tutta, s’è preso il 7-5 che significava uno a zero per l’Italia dopo due ore e 43 minuti di lotta testa a testa.
A tavola apparecchiata, il dolce l’ha portato Sinner. La vittima designata è sempre la stessa: Alex De Minaur, numero nove del ranking, sconfitto nove volte su nove negli scontri diretti. Demon è un quasi campione con molti talenti: è tenace e orgoglioso, possiede visione strategica, compensa da incontrista la bassa potenza, soprattutto ha i piedi più veloci del West. Messo davanti alla prospettiva dell’ennesimo ko, anziché giocare sul ritmo ha mescolato le carte variando il più possibile gli scambi. Tutto inutile. Malgrado la sua eccellente partita, ha progressivamente perso campo finendo inchiodato da una macchina sparapalle che non perdona. Ha avuto un sussulto iniziale, recuperando il break accusato in avvio, correndo da tutte le parti e rispondendo a tono alle fucilate del ragazzo rosso. Finché ha potuto. Dall’altra parte della rete, Jannik ha messo in scena la rappresentazione abituale: un’alta cucina del delitto, l’invito a una decapitazione per l’avversario di turno. Conclusa con una sgasata sulla retta d’arrivo: 6-2, 6-4 e sipario.
Ormai l’abbiamo capito. Wonder Boy è un boa constrictor che ti soffoca e poi sussurra premuroso alla stretta di mano: mi dispiace, spero di non averti fatto troppo male. Il pubblico si chiede da quale pianeta sia sceso, probabilmente è Sidereus Nuncius, il messaggero delle stelle. A un certo punto dagli spalti si sente un ohhhh di meraviglia davanti a un suo errore — lo stesso succedeva a Liedholm quando giocava nel Milan: “Una domenica la gente mi applaudì per un passaggio sbagliato, erano tre anni e mezzo che non capitava”. Sul 2-0 per noi non c’è stato bisogno del doppio contro la coppia Ebden-Thompson, che ci aveva fatto passare una notte preoccupata. Nel caso Volandri avrebbe schierato Sinner e Berrettini? Chissà. “Non c’è nulla di scontato — ha commentato l’altoatesino — è sempre dura con qualunque avversario. Viviamo per giornate così, per sentire questa pressione. Ed è bello pensare che l’ultima partita della stagione sarà la finale di Coppa Davis”.
Speriamo di non arrivarci domenica, al terzo incontro, perché il duo olandese è avversario rognoso con il veterano Koolhof fra i migliori della specialità. Meglio chiudere i conti in fretta. I singolari sono già scritti: Matteo se la vedrà con Van de Zandschulp, Jannik con Griekspoor. Sfide toste. Ma chi può battere una squadra che mette insieme l’amico ritrovato e il ragazzo meraviglia?