Difficile raccogliere i pezzi, mettersi a trovare spiegazioni e soprattutto affrontare i domani che verranno. Per metà degli americani, anzi, meno della metà, perché stavolta anche nella conta semplice dei voti – quella che da noi europei segna la fine di ogni discussione – Trump ha vinto. Questi sono giorni di lutto, spaesamento, tristezza, magari da chiudersi in casa con gli amici fidati e fermarsi anche solo a guardare il muro e a chiedersi come sia stato possibile.
Se c’è invece una trincea dove è vietato restare senza parole, è quella dei giornali americani, grandi e piccoli, le tv, i media come vogliamo chiamarli che sanno benissimo che i giorni che verranno saranno per loro mortalmente complicati. Perché questa volta, questa seconda volta, quel presidente che già li aveva indicati alla folla come “nemici del popolo” proverà in tutte le maniere a liberarsi di quell’ultimo contro potere che ha reso leggendaria la forza della democrazia americana. Inutile ricordare quel “non mi dispiacerebbe se sparassero ai giornalisti” aizzato in uno degli ultimi comizi, perché da oggi in poi la guerra ai giornali della futura presidenza Trump sarà al primo punto delle cose da fare, la cartina al tornasole di quella nuova America forte che ha promesso a se stesso e ai suoi sostenitori.
Badate bene: questo Trump non è quello di otto anni fa, straordinario fenomeno di incompetenza e narcisismo, imprevedibile e instabile fascinatore dei dimenticati che prese tutti di sorpresa. Quello di oggi è un presidente che arriva alla Casa Bianca in una situazione di potere e di controllo praticamente totale sulle istituzioni: Camera, Senato, Corte Suprema, tutti fortini conquistati. Opposizione ridotta alla discussione interna permanente (come nelle migliori tradizioni), società divisa e in armi come mai negli ultimi anni e in più, ancora più che mai, allineati con lui i supericchi, quei billionari che hanno deciso non solo di difendere col ghigno di sempre il diritto a moltiplicare senza fine i loro patrimoni ma di scendere in campo direttamente a fianco del loro milionario presidente. Anzi nel caso di Elon Musk, di candidarsi a novello Richelieu, lasciando interdetto il povero Zelensky che se lo è ritrovato al telefono nel primo delicato colloquio con Trump per discutere il futuro della sua Ucraina. Ebbene in questa situazione é facile prevedere il desiderio della futura Casa Bianca di liberarsi una volta per tutte anche di quel fastidioso ronzio che sono ancora il vecchio New York Times o il Washington Post, per dire i primi due che vengono in mente. E con il Post le manovre sono già cominciate spegnendo la luce in redazione quando l’editore si è convinto che forse era meglio non lanciarsi nel rito decennale di fare chiarezza e dire da che parte stare nella corsa alla Casa Bianca. Sapete di chi parliamo no? Di un altro di quei miliardari, che ha fatto dei pacchi la sua fortuna e che oggi può anche presentarsi in redazione e dire, ragazzi tranquilli, vi proteggo io. Ma non sarà così facile convincerli, i giornalisti del Post così come gli oltre duecentomila lettori che dopo il divieto di Bezos hanno stracciato il loro abbonamento. A proposito sapete che dopo la prima elezione di Trump, per diversi mesi ci fu una impennata negli abbonamenti del New York Times e del Post, quasi che fosse un investimento per salvare il Paese. Non sappiamo adesso come andranno le cose, di sicuro saranno giorni difficili se anche uno tosto come Marty Baron, ex direttore del Post, ha lanciato l’allarme sul futuro della libertà di stampa in america. Ha detto “dobbiamo aspettarci attacchi legali mai visti prima, fino ad accuse di spionaggio per i giornalisti che faranno inchieste, considerate attentato alla sicurezza dello Stato”. Le associazioni della stampa dovranno essere pronte a difendersi ha aggiunto ma anche i giornalisti a “ricostruire la fiducia con i lettori mettendo a loro disposizione anche la possibilità di accedere alle fonti, insomma far capire come lavoriamo”. Parole che chiamano alla battaglia democratica in difesa dei giornali americani, parole di una intervista che Baron ha rilasciato al Guardian, giornale inglese. Come fosse già in esilio.