Piovono critiche sul Washington Post. Per la prima volta dal 1976, il quotidiano dello scandalo Watergate, che ha come slogan “Democracy Dies in Darkness” – la democrazia muore al buio – ha deciso di non dare un endorsement ufficiale in vista delle presidenziali di martedì 5 novembre. La decisione è stata annunciata dal presidente della testata, Will Lewis, secondo cui di fronte alla lotta fra Donald Trump e Kamala Harris, “torniamo alle nostre origini e non diamo un sostegno ufficiale a un candidato presidenziali”- promettendo che sarà così per sempre in futuro.
La voce più autorevole a fustigare l’annuncio è quella dell’ex direttore Martin Baron, secco e bruciante: “Questa è codardia” ha scritto su X, “con la democrazia come vittima. @realdonaldtrump la prenderà come un invito a intimidire ancora di più il proprietario @jeffbezos (e altri). Inquietante viltà in una istituzione celebre per il suo coraggio”.
Nel mirino infatti c’è Bezos: il fondatore di Amazon comprò la testata nel 2013 per 250 milioni di dollari. E c’è una rivolta interna al giornale: secondo NECN due giornalisti del Post hanno pubblicato un articolo affermando che era stato preparato un endorsement per la democratica Kamala Harris, e che “la decisione di non pubblicarlo è stata presa dal proprietario del Post, il fondatore di Amazon, Jeff Bezos”.
Ancora più inquietante è che si tratta del secondo grande giornale nazionale a non schierarsi. Pochi giorni fa la giornalista a capo dello staff editoriale del Los Angeles Times si è dimessa per protesta perché il proprietario del quotidiano californiano, Patrick Soon-Shiong, ha deciso di non sostenere né Harris né Trump. Soon-Shiong, come Bezos, è un miliardario.