“Siamo preoccupati per la nuova legge, per quello che significherà per i cittadini americani nati da madri surrogate”. Così Jack Markell, l’ambasciatore degli Usa in Italia, intervistato da una trasmissione del canale Sky TG24: il diplomatico si riferisce alla legge che da pochi giorni ha reso la maternità surrogata “reato universale” in Italia. “Questo, inoltre, ci preoccupa riguardo i diritti legali di alcune famiglie rispetto ad altre”.
Le parole di Markell fanno eco a quelle, mercoledì 23 ottobre, di un portavoce del Dipartimento di Stato stuzzicato dal quotidiano La Repubblica. Parecchie coppie italiane – soprattutto eterosessuali ma anche omosessuali – negli anni sono andate a cercare un figlio tramite maternità surrogata negli Stati Uniti e in particolare in California, dove la pratica, anche detta “gestazione per altri” o GPA, è legale anche quando retribuita (mentre in diversi paesi europei è legale ma solo a titolo gratuito). Questi bambini nascono negli Stati Uniti e vengono riconosciuti dai genitori italiani, ma sono cittadini americani per nascita. Cosa sarà di loro?
In Italia, la maternità surrogata era già reato. Ma con la nuova legge, chi vi ricorre sarà passibile di due anni di carcere e fino a un milione di euro di multa, anche se il bambino è nato all’estero: appunto, adesso è un “reato universale” cioè dovunque sia commesso. E se il genitore finisce in carcere che ne sarà del bambino? Che diritti avrà se la sua nascita non è legale per lo Stato italiano?
Il governo Meloni – che due anni fa al suo insediamento ha creato un ministero per le Pari Opportunità, la Famiglia e la Natalità, tutto insieme, guidato da una ministra che molti e molte considerano fondamentalista, Eugenia Roccella – ha fortemente voluto questa nuova norma come un fiore all’occhiello, una bandiera a difesa della famiglia tradizionale. La maternità surrogata – chiamata con disprezzo “utero in affitto” – viene bollata come una bieca forma di sfruttamento del corpo femminile, una prostituzione obbligata e aggravata dal coinvolgimento di un figlio, strappato al ventre della madre: tutte le armi retoriche sono state usate per descrivere la pratica. escludendo a priori l’idea che una donna possa farlo consapevolmente e magari con soddisfazione. In questo, il governo si è dato la mano con una buona fetta del femminismo italiano più conservatore, in nome di una presunta tutela del corpo e dell’identità della donna.
Ma a chi giova? Si parla di una norma che tocca qualche migliaio di persone, non esattamente un fenomeno di massa (e prevalentemente le coppie che fanno ricorso alla surrogata sono eterosessuali). Gli obbiettivi sono chiari: in primis, le coppie gay, che da una decina d’anni possono “sposarsi”, con delle apposite “unioni civili”, quasi matrimonio ma non proprio, provvedimento passato dopo una feroce battaglia parlamentare: ma che non possono adottare o usare la fecondazione assistita. E in secondo luogo, la difesa di un’idea di società dove fare figli è lecito sì, anzi opportuno, ma solo nel modo più tradizionale possibile: nella famiglia dotata di mamma e papà. Del resto, anche ai single è vietato far figli in altro modo che facendosi inseminare naturalmente da qualcuno.
La legge non è retroattiva, ma già adesso le coppie omosessuali devono scegliere quale genitore far figurare sul certificato (ci sono molti bambini con un solo genitore legale anche se sono in due a occuparsene) e quelle che hanno figli nati con madre surrogata sono giustamente preoccupati.
Di più, bisogna chiedersi a cosa serve questa difesa della famiglia tradizionale, anche da parte di una premier come Meloni, prima donna a capo del governo, madre single ora anche separata dal compagno, amica di quell’Elon Musk che è ricevuto con tutti gli onori ma che non fa mistero di aver fatto ricorso alla surrogata (lui può) – e incidentalmente, presidente del Consiglio che insiste a farsi chiamare con l’articolo al maschile: IL presidente.
E viene in mente che la famiglia tradizionale piace alla Chiesa cattolica, ma prima ancora, è utile per gestire una società senza grilli per la testa, dove le donne lavorano solo residualmente e invece si occupano intensamente di fare e allevare figli per la patria. I modelli economici possono anche sostenere che la società italiana sarebbe molto più ricca se le donne lavorassero di più: ma questo implica asili nido, congedi di paternità, assistenza di Stato, leggi di tutela. Che risparmio, che tagli alla spesa pubblica invece se le donne tornassero modestamente a farsi carico gratis del welfare, dell’assistenza ad anziani e malati, e dei figli. C’è anche questo dietro la retorica del neonato strappato, della maternità sacrale, del rifiuto di forme di famiglia allargata e diversa.