Mentre il quadro internazionale politico e di sicurezza non cessa di angosciare, alcuni indicatori economici tornano al bello, facendo sperare che dal 2026 possano darsi, dopo tempi di magra, le condizioni per il rilancio globale dell’economia, in particolare attraverso l’atterraggio morbido che l’inflazione sta facendo registrare in paesi chiave, Stati Uniti su tutti.
Con il commercio che risente delle tensioni politiche, l’attenzione va soprattutto agli investimenti. Se ne nota una certa ripresa, nonostante le politiche monetarie piuttosto tirate (in funzione antinflattiva) dei recenti anni. Si fanno notare, in particolare, Usa, Francia, paesi scandinavi e baltici, e settori come la proprietà intellettuale, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, alcuni servizi. Restii agli investimenti appaiono, al contrario, paesi come Canada, Australia, Spagna, la maggior parte dei mercati emergenti, e settori come beni strumentali, trasporto, minerario, a conferma delle persistenti difficoltà dell’industria.
Andando ai singoli mercati, negli Stati Uniti, nonostante le recenti esitazioni all’espansione dei livelli occupazionali, la crescita del Pil nel secondo trimestre ha superato ogni ottimismo, al punto da spingere The Economist a definire la situazione, nella copertina del 19 ottobre, “The envy of the world”, scrivendo nel servizio che gli USA “left other rich countries in the dust.”
In effetti sull’altra sponda, l’eurozona cresce, ma con ritmi inferiori alle attese, specie nei paesi più industriali come Germania e Italia, dove la debolezza del quadro economico persiste. Il prossimo anno dovrebbe andare meglio: l’Unione Europea, con il Giappone, è data in ripresa.
Difficoltà specifiche per l’Italia, e basta guardare all’impietoso confronto con un paese per tanti versi simile, che per decenni è stato alle spalle dell’allora potenza economica italiana: la Spagna. In Italia la crescita è prossima allo zero, in Spagna supera il 2,5%. Sul lato finanziario il nostro spread sul Bund tedesco è a quasi 122 punti contro i 69 dei cugini spagnoli. Interessante il trend a scendere realizzato dalla lunga cura finanziaria del governo socialista di Pedro Sánchez: 24 punti in meno negli ultimi dodici mesi. A breve lo spread spagnolo potrebbe trovarsi a un decimo del suo massimo, 668, toccato nell’ottobre 1992, nella fase declinante del lungo governo di un altro socialista, Felipe González.
A spingere la ripresina sulle due sponde atlantiche sono i servizi e i consumi privati: le famiglie riprendono a spendere perché si va diffondendo il maggiore potere di acquisto che arriva – anche se non in tutti i paesi allo stesso modo – dal contrarsi dell’inflazione, insieme alla crescita di salari e livelli occupazionali. Lo stesso cerbero guardiano dell’ortodossia monetaria, il Fondo Monetario Internazionale, afferma, nel World Economic Outlook di martedì 22, di prevedere che l’inflazione complessiva stia scendendo dal picco del 9,4% del 2022 (anno su anno) al 3,5% di fine 2025, persino sotto la media del biennio precedente alla pandemia. Aiuta il calo dell’inflazione anche la tendenza al ribasso dei prezzi delle materie prime (il petrolio è andato sotto gli 85 dollari al barile in agosto). Procedendo così le cose – ed è una buona notizia per le imprese – nonostante la persistente inflazione da servizi che su ambedue le sponde atlantiche veleggia al 4% pur manifestando tendenze al ribasso sino al 3% – il ritmo graduale nel taglio degli interessi non dovrebbe più arrestarsi, portando alla sperata neutralità del tasso primario da qui a un anno.
Per quanto riguarda il terzo polo della triade strategica dell’economia globale, la Cina, i segnali di debolezza proseguono, nonostante il recente varo da parte del governo di ponderosi stimoli fiscali e monetari. Secondo il capo economista del Fmi, Pierre-Olivier Gourinchas, benché il pacchetto di stimoli pubblici vada nella direzione giusta, non sarà sufficiente a risollevare la crescita interna in maniera materialmente apprezzabile. Nel terzo trimestre, il grande paese asiatico è cresciuto solo del 4.6%, il tasso più basso in diciotto mesi. Il +5,2% del 2023 si contrarrà quest’anno al 4,8%, tradendo le aspettative che, ancora a luglio, puntavano al 5%. Il prossimo anno la lenta discesa nella crescita del pil dovrebbe portare al +4,5%. Sul risultato di quest’anno sta pesando più del dovuto lo scivolone del secondo trimestre, collegato alla fiducia calante nell’immobiliare e nella grande industria. Al di là della congiuntura, nella Cina andata a raccogliere applausi al Brics di Kazan in Russia (23-24 ottobre) c’è un problema di struttura che va persino oltre il già sufficientemente serio problema della bolla immobiliare. La sterzata statalista e “comunista” di Xi, sta scontentando la vasta imprenditoria privata che reagisce come farebbero i loro colleghi in qualunque altra parte del mondo: votando con i piedi, ovvero portando capitali fuori dal paese. Negli ultimi dodici mesi, l’equivalente di 250 miliardi di dollari è uscito dalla Cina per convertirsi in oro, dollari o euro. E dire che Xi, a Kazan, è tornato convintamente sulla necessità per le economie emergenti di darsi una moneta alternativa al dollaro per gli investimenti e il commercio internazionali.
A Kazan, Xi ha incontrato il primo ministro dell’India, Narendra Modi: proprio l’India risulta l’unico dei paesi emergenti che sta documentando un’accettabile crescita, prevista in significativa prosecuzione nel 2025.
Guardando ai prossimi mesi, intelligenza artificiale (IA), digitale, transizione climatica, appaiono i settori di maggiore espansione: proprio quelli, per capirci, che il governo italiano continua cocciutamente a ignorare, ad esempio investendo solo noccioline nella ricerca di innovazione.
Protezionismo e guerre commerciali di stampa nazionalistico (che si presume cresceranno esponenzialmente nel caso Trump tornasse alla Casa Bianca), sono il vero rischio di una ripresa globale per la quale il prossimo anno potrebbero darsi invece le condizioni, visto che in paesi chiave si sta tornando a sostenere la spesa in conto capitale fisso.
Nell’Industry outlook 2025 pubblicato in data odierna, Economist Intelligence Unit esamina le sfide e le opportunità presentate da sei settori strategici del nostro sistema economico: automotive, beni di consumo e commercio al dettaglio, energia, finanza, salute, tecnologia e telecomunicazioni. Si prevede, anche a causa del rallentamento delle economie sviluppate, una crescita modesta, con un incremento del Pil reale del 2,6%, simile a quello del 2024, ma ampiamente sotto il dato medio del decennio precedente a Covid-19. Con l’inflazione in regresso, salirà il costo delle materie prime industriali in particolare del metallo comune legato alla transizione verde, mentre cadranno i prezzi agricoli e delle materie prime energetiche. Persistendo guerre e contrasti politici, proseguirà la ristrutturazione delle catene mondiali di fornitura e la ricostituzione di barriere commerciali all’interno della triade. Sulle tensioni geopolitiche peseranno anche i cambiamenti climatici: l’eventuale cambio al vertice degli USA potrà stravolgere l’agenda di COP30 (novembre 2025), chiamata, tra l’altro, a vedersela con gli enormi consumi energetici e ambientali dei grandi sistemi informatici e di IA.