Cinque uomini sono stati giustiziati nello spazio di una settimana negli Stati Uniti nonostante i dubbi da più parte sollevati sulla loro colpevolezza. Siamo alla vigilia delle elezioni, e si vede. I governatori – repubblicani – degli Stati coinvolti (Texas, Oklahoma e Alabama) non hanno voluto ascoltare ragioni. In un caso è stato usato il soffocamento con l’azoto, metodo che viene accusato di provocare atroci sofferenze.
Dall’altra parte dell’Atlantico, dove la condanna a morte è considerata barbarica (è indispensabile applicare almeno una moratoria per aderire al Consiglio d’Europa), è fonte di costante meraviglia che “la più grande democrazia del mondo” non riesca a emanciparsi dall’idea che la giustizia debba rifarsi alla legge del taglione: occhio per occhio, vita per vita. O per dirlo più semplicemente: che si applichi non la giustizia (e la potenziale rieducazione del criminale) ma la vendetta, con tanto di parenti delle vittime ad assistere all’esecuzione. La statistica dimostra del resto che altro motivo non c’è: la pena di morte non ha alcun valore deterrente sul crimine.
Eppure, per buona parte del paese è giusto così, ed è politicamente poco conveniente esprimere opinioni diverse. Questa settimana nera si iscrive in una lunga storia che ha visto anche battute di arresto per l’applicazione della pena capitale, sia a livello statale che federale, e variazioni nei reati passibili della morte (in testa a tutti resta l’omicidio).
Attualmente sono 21 su 50 gli Stati dell’Unione che praticano ancora le esecuzioni, tutti a maggioranza conservatrice, del profondo Sud o del centro agricolo. Altri sei – Arizona, California, Oregon, Ohio, Pennsylvania e Tennessee – considerano legale la pena di morte, ma mettono in pratica per vari motivi una moratoria. Anche a livello federale la pena di morte è applicata, sia pur raramente. Lo Stato che dall’inizio degli anni Ottanta ha di gran lunga ucciso di più è il Texas, 589 persone. Segue l’Oklahoma con 125.
Nessun presidente degli Stati Uniti – certamente non i repubblicani, ma neanche i democratici – finora si è detto apertamente contrario; anzi Bill Clinton ampliò il raggio di applicazione della massima pena. Potrebbe Kamala Harris – che da Attorney General della California rifiutò di applicarla – cambiare strada? Quando si candidò per la Casa Bianca nel 2019 (campagna breve e sfortunata) l’abolizione era nel suo programma elettorale. Ma in questi giorni, è rimasta in silenzio. Anche nel caso di Marcellus Williams, il più problematico.
Gli appelli alla clemenza per Williams, in Missouri, sono rimasti inascoltati benché venissero dalla famiglia della vittima (accoltellata nel 1998) e persino dalla Procura dello Stato, che tutti nutrivano dubbi sulla sua colpevolezza; l’afroamericano però è morto martedì. Nello stesso giorno il Texas ha giustiziato Travis James Mullis, condannato per aver ucciso il figlio di tre mesi nel 2008.
Il venerdì precedente, il South Carolina aveva giustiziato Freddie Owens nonostante fossero emersi nuovi dubbi sulla sua colpevolezza con la ritrattazione del teste principale contro di lui.
Giovedì 26 settembre, infine, Emmanuel Littlejohn è morto in Oklahoma; condannato per aver ucciso un commesso nel 1992, aveva sempre sostenuto la propria innocenza. Lo stesso giorno, l’Alabama ha messo a morte Alan Eugene Miller, condannato per aver sparato nel 1999 a tre colleghi, nonostante fosse stata dimostrata la sua infermità mentale. L’esecuzione di Miller è avvenuta tramite asfissia, e qui si apre un altro capitolo.
Gli Stati Uniti consentono la pena di morte ma proibiscono le “punizioni crudeli e inusuali”, insomma uccidere sì ma senza sofferenze (benché l’idea stessa di sapere che si deve morire all’ora x, nonché il balletto eterno dei ricorsi, controricorsi, sospensioni negli anni del braccio della morte siano di per sé una punizione mentale crudelissima, per non parlare delle esecuzioni sospese perché non si trova la vena). Per questo non si impicca più e anche la soluzione “tecnologica” ma per nulla indolore della sedia elettrica è stata abbandonata.
Negli ultimi anni però è stato sempre più difficile reperire i farmaci per le iniezioni letali, perché i produttori vogliono essere protetti dalle polemiche. L’Alabama ha così inventato la morte per asfissia: al condannato viene applicata una maschera che gli fa respirare azoto. Secondo le autorità dello Stato, è indolore. Secondo diversi pareri, invece, è un metodo paragonabile alla tortura, e nessuno può più chiederlo ai due uomini finora morti così.
Il secondo è stato appunto Alan Eugene Miller. “Non ho fatto nulla per essere qui” sono state le sue ultime parole prima che la maschera della morte gli coprisse il volto. Secondo il reporter presente della Associated Press, è stato scosso da forti brividi per due minuti e poi ha singultato per altri sei prima di morire. “Niente di inatteso” per le autorità dello Stato, sarebbero “movimenti involontari” del corpo privato di ossigeno. La stessa cosa era accaduta con Kenneth Smith all’inizio dell’anno.
Il Texas – che ha già giustiziato tre uomini quest’anno – ha ancora tre esecuzioni in programma prima della fine dell’anno. Il 17 ottobre dovrebbe morire Robert Roberson, condannato per aver “scosso a morte” la figlioletta Nikki, due anni. Roberson sostiene che era caduta dal letto. Ma la “sindrome del bambino scosso”, cioè l’idea che il violento scuotimento di un bambino possa provocare lesioni fatali al cervello anche senza traumi esterni apparenti, oggi è messa in discussione da vari scienziati secondo cui è più probabile che la morte avvenga per problemi respiratori o di deglutizione, senza responsabilità da parte di altre persone. Ma questo molto difficilmente salverà Roberson.