Amber Nicole Thurman è diventata una bandiera per i democratici; il suo nome, un grido di raccolta che invita i cittadini americani ad andare alle urne. Preferirebbe essere viva, certamente; ma Amber Nicole non c’è più, uccisa dalla legge della Georgia che dal 2022 proibisce le interruzioni di gravidanza. La sua morte risale proprio al 2022; un articolo dell’associazione ProPublica la indica come la prima vittima della paura dei medici a intervenire di fronte alle nuove norme anti aborto nello Stato del sud.
La giovane, madre di un bambino che oggi ha otto anni, aveva subito una rara complicazione da una pillola abortiva: non aveva espulso tutto il materiale del feto. L’ospedale di Atlanta a cui si era rivolta, il Piedmont Henry, avrebbe potuto salvarla con un semplice raschiamento. Era il 19 agosto. Ma in Georgia due settimane prima era entrata in vigore la legge che proibisce l’aborto quando il battito cardiaco del feto è percepibile (intorno alla sesta settimana, cioè quando la maggioranza delle gravidanze non è stata neanche accertata). Effettuare un raschiamento era diventato un reato – con poche eccezioni – e i medici temevano di rischiare fino a dieci anni di galera. Ci hanno messo venti ore a decidere di intervenire mentre Thurman soffriva e l’infezione si allargava: troppo tardi, la setticemia l’ha uccisa.
Pro Publica riporta che una commissione ufficiale – i cui rapporti non sono diffusi pubblicamente – ha decretato che la sua morte era “evitabile” e che il ritardo dell’ospedale ha avuto “un ampio impatto”. Sempre secondo l’associazione, sono almeno due le donne morte finora in Usa perché non hanno avuto accesso legale e sicuro all’aborto. Ma quasi certamente sono di più: “commissioni come quelle della Georgia lavorano con un ritardo di un paio d’anni sui casi che esaminano, e quindi solo adesso gli esperti stanno esaminando le conseguenze della decisione della Corte Suprema”.
Il tema è esploso appunto da quando nel fatidico 2022 la Corte Suprema degli Stati Uniti, riempita di giudici conservatori da Donald Trump, ha eliminato la tutela federale dell’aborto rimandando la decisione ai singoli Stati. Ed è centrale nella campagna della candidata democratica alla Casa Bianca, Kamala Harris. È stato anche uno dei momenti più accesi del dibattito tv sulla ABC fra Harris e Trump. Non è chiaro cosa l’ex presidente pensi personalmente dell’aborto – ha espresso opinioni confuse e contrastanti nel tentativo di non alienarsi le elettrici – ma si arrocca sulla sua linea di difesa: l’interruzione di gravidanza aveva spaccato il paese per cinquant’anni, “tutti gli esperti dicevano che la decisione doveva tornare agli Stati” (il che non è vero), e ora la questione sarebbe regolata.
Martedì, Harris ha reagito all’articolo di ProPublica scrivendo “Quella giovane madre dovrebbe essere viva, con suo figlio, intenta a raggiungere il suo sogno di diventare infermiera. Le donne sanguinano nei parcheggi, vengono respinte dai pronto soccorsi, perdono la possibilità di diventare madri in un altro momento. Le superstiti di stupri e incesti si sentono dire che non possono decidere cosa succede al loro corpo. E adesso le donne muoiono. Queste sono le conseguenze delle azioni di Donald Trump”.
Particolarmente sentito il tema in Georgia, dove il governatore repubblicano Brian Kemp, che ha firmato la legge, aveva battuto per un soffio nel novembre 2021 la deputata democratica afro americana Stacey Abrams.
Ma sono molti gli Stati dove la questione è bollente, e dove gli elettori la troveranno sulla scheda elettorale il 5 novembre prossimo sotto forma di referendum. Donald Trump sostiene di aver regolato una faccenda che spaccava l’America: ma l’America è tuttora lacerata. Nei cinquant’anni in cui la sentenza Roe contro Wade ha protetto l’aborto federale, praticamente ogni quesito referendario sull’aborto era proposto da gruppi pro-vita. Adesso è vero il contrario. In dieci stati, i movimenti per il diritto di scelta chiedono agli elettori se vogliono inserire il diritto all’aborto nella Costituzione locale.
Le misure sono diverse a seconda dello Stato, e mirano anche a spingere al voto gli elettori – e le elettrici – che fanno parte del grande bacino degli indecisi o dei non registrati. Diventa quindi cruciale per esempio in Stati come il Nevada e l’Arizona.
In Florida, in Missouri e in Dakota del Sud, il referendum darebbe accesso all’aborto che è stato per legge locale quasi completamente messo al bando. Quella in Florida richiede una maggioranza del 60% per passare; nello Stato, adesso è proibito abortire dopo la sesta settimana di gravidanza.
Nella maggior parte dei casi il quesito referendario chiede che l’aborto sia consentito fino a che il feto non può sopravvivere da solo – intorno alla 24esima settimana, come stabiliva la Roe contro Wade. Dopo quel termine potrebbe essere vietato, salvo parere medico per la vita della madre.
I gruppi anti aborto sponsorizzano solo un referendum, in Nebraska, chiedendo di mettere al bando l’interruzione di gravidanza nel secondo e nel terzo trimestre, e quindi iscrivendo nella Costituzione locale la nuova legge che proibisce l’aborto dopo la dodicesima settimana (che peraltro è il termine in vigore in Italia, sia pure con eccezioni per gli aborti terapeutici). Ma sulla scheda del Nebraska ci sarà anche un altro quesito, sponsorizzato dai gruppi per la libertà di scelta, che vuole spostare il termine a 24 settimane. Se dovessero essere approvati entrambi, vincerà quello con più voti.
Questo breve quadro spiega quanto sia marezzata oggi la situazione negli Stati Uniti. In una metà degli Stati è ancora possibile abortire, nell’altra metà è proibito o fortemente limitato, con regole e condizioni molto diverse (incluso il divieto di commercializzare pillole abortive, che arrivano per posta e possono quindi essere assunte a casa, anche se non senza rischi come dimostra il caso Thurman).
I sondaggi la identificano come una delle questioni più importanti per l’elettorato. Secondo il Pew Center, la posizione della maggioranza non è cambiata negli ultimi anni ed è fortemente polarizzata: per il 63% degli americani l’aborto dovrebbe essere legale in tutti o quasi tutti i casi; per il 36% dovrebbe essere illegale sempre o quasi sempre. Lo vuole legale l’85% dei democratici (e il 41% dei repubblicani), il 64% delle donne e il 61% degli uomini, il 76% degli asiatici, il 73% degli afroamericani, il 60% dei bianchi e il 59% degli ispanici.
Guardando al culto religioso, i più contrari all’aborto sono i bianchi evangelici protestanti (il 73%). In tutti gli altri gruppi religiosi, la maggioranza è a favore del diritto di scelta: il 64% dei bianchi protestanti non evangelici; il 56% dei cattolici; il 71% dei neri protestanti. Favorevole anche l’86% di coloro che non hanno affiliazione religiosa.