Se i sondaggi – che danno il Labour Party al 40% circa contro il 20% dei Conservatori – non mentono, stasera il leader laburista Keir Starmer sarà il nuovo premier in pectore del Regno Unito, in attesa dell’incarico di Carlo III. Un mese di campagna elettorale matta e disperatissima da quando il primo ministro conservatore Rishi Sunak ha sciolto la Camera dei Comuni; con esito scontato perché i laburisti ormai da due anni sono favoriti in un paese logorato dai guai della Brexit.
Eppure la parola “Brexit” è stata un tabù, nessuno l’ha pronunciata. Neanche Starmer – pesa sui laburisti l’errore tragico dell’ex leader Jeremy Corbyn che non si schierò a favore dell’Ue.
Secondo Tom Baldwin, che su di lui ha scritto una biografia (frutto di lunghe conversazioni nell’arco di due anni), Sir Keir Rodney Starmer è “il leader laburista più di classe operaia della generazione, il primo della storia a essere già Sir prima di entrare a Downing Street, un uomo riservato e cauto che ha scelto di occupare la scena pubblica e di correre alcuni giganteschi rischi politici; gli piace riflettere prima di decidere ma è stato anche spietato nel combattere avversari fra i Tories e nel suo partito”.
Riassunto di Wikipedia: nato a Londra nel 1962 da un’infermiera e un produttore di attrezzi, entrambi sostenitori del Labour, chiamato Keir in omaggio al fondatore del partito, Keir Hardie; deputato dal 2015, a capo del partito dall’aprile 2020, avvocato specializzato in diritti umani (è così che è diventato baronetto), già direttore della pubblica accusa per l’Inghilterra e il Galles dal 2008 al 2013 – come dire, procuratore generale. Sposato dal 2007 con l’avvocata Victoria Alexander, hanno due figli cresciuti nella fede ebraica della madre. Appassionato dilettante di calcio, tifoso dell’Arsenal, vegetariano. Scheletri nell’armadio? Un’indagine per presunta violazione del confinamento sanitario in epoca Covid (nulla a che vedere con le feste in giardino del governo Boris Johnson); un incidente di macchina in cui nel 2020 investì un ciclista che riportò ferite lievi.
Il suo programma prevede fra l’altro l’abolizione della Camera dei Lord, “istituzione ormai indifendibile”; la creazione e ridistribuzione di ricchezza, puntando a migliorare il tenore di vita dei lavoratori; investimenti in formazione, competenze, tecnologia e infrastrutture per aumentare la produttività; 3,5 miliardi di sterline in investimenti verdi.
Le incognite del suo mandato saranno molte; prenderà il timone di un paese in una complicata situazione internazionale, potrebbe trovarsi a negoziare la “special relationship” di Londra con Washington con Donald Trump alla Casa Bianca, ipotesi che certamente non gli piacerebbe. Dipenderà anche dai voti che prenderanno gli altri due partiti in lizza – i liberal democratici dati attorno all’11, mentre dovrebbe prendere più del 15% il partito “Renew” dell’ultraconservatore euroscettico Nigel Farage – strumentale nel rubare molti voti dei più puri e duri ai Conservatori. I Tories sono stati al governo 14 anni inanellando una lunga serie di premier – David Cameron, fino al 2016 e allo sciagurato referendum che indisse nonostante non lo volesse, e poi tutti quelli che si incaricarono di ‘gestire la Brexit’: Theresa May, Boris Johnson, poi il brevissimo regno di Liz Trouss e infine Rishi Sunak.
Brexit: il tema di cui non si deve parlare che però pesa sul morale e sulle casse del paese. Secondo uno studio Cambridge commissionato dal sindaco di Londra Sadiq Kahn (laburista filo europeista) la sola economia della capitale ha perso oltre 30 miliardi di sterlina dopo l’uscita dall’Ue, ha 290.000 posti di lavoro in meno; sono due milioni in meno a livello nazionale, per metà nel settore finanziario ed edilizio. Il costo della vita è aumentato, soprattutto quello dei beni alimentari. Il Regno ha perso il suo più grosso partner commerciale e paga dazio, letteralmente e figurativamente, per l’uscita dal mercato comune. Moltissime aziende hanno spostato una filiale sul continente per essere in grado di gestire la distribuzione senza sorprese, o addirittura per avere un punto produttivo all’interno del mercato unico. Chi compra merce dal Regno Uniti paga più di quanto pagherebbe entro i confini UK, ma i siti calcolano le tariffe doganali e il venditore se ne fa carico in anticipo, per non scoraggiare i clienti continentali.
Keir Starmer di Brexit se ne intende: sotto il mandato del leader Corbyn, era il segretario ombra sul dossier. L’aspirante premier ha solo detto che cercherà di rinegoziare con Bruxelles alcuni degli aspetti più pesanti per Londra, aggiungendo che il Regno Unito “non tornerà in Ue nell’arco della mia vita”. Però il ritorno del Labour a Downing Street, a 14 anni dal maggio 2010 quando Gordon Brown, ultimo premier del partito, fu sconfitto, potrebbe segnare una nuova aurora di rapporti con l’Ue.