Lo hanno soprannominato Duracell per le capacità di tenuta e di durata anche nelle circostanze più difficili. Il portoghese Antonio Costa, quasi 63 anni, nuovo presidente socialista del Consiglio europeo, è il politico che con la cordialità quasi scanzonata e le doti di incassatore riesce meglio di chiunque altro leader nel nostro continente a navigare nelle tempeste.
Solo sei mesi fa la sua carriera sembrava finita. Dopo dieci anni alla guida del Portogallo, che era riuscito a riportare a galla salvandolo da una crisi devastante, era stato coinvolto nello scandalo del litio che aveva fatto cadere il suo governo. Un’intercettazione stava per inchiodarlo nel giro di mazzette gestito da alcuni suoi collaboratori. Senza pensarci un attimo Costa si dimise, pur dichiarandosi estraneo. Mettendo in difficoltà il partito socialista, che aveva la maggioranza assoluta e che per gli inevitabili riflessi della macchinazione nelle conseguenti elezioni anticipate perse poi di stretta misura a vantaggio dei conservatori.

Se avesse indugiato solo 24 ore, oggi Costa sarebbe ancora il premier del Portogallo e non il responsabile di una delle più alte cariche europee- presidente del Consiglio che riunisce periodicamente i capi di Stato e di Governo nell’Unione. Perché lo stesso magistrato che lo inquisiva ammise che la telefonata incriminante non riguardava lui ma un ministro omonimo. Costa ne uscì con le mani quasi del tutto pulite, macchiate solo da un piccolo schizzo di fango. Nelle perquisizioni seguite alle indagini era stata ritrovata una valigia stracolma di euro nell’ufficio di un alto funzionario attiguo al suo. Il primo ministro poteva non sapere? Non aver subodorato il tanfo proveniente da un assistente tanto vicino?
Costa ha impiegato un attimo a risorgere dalle ceneri. Al punto che oggi è rimpianto dagli elettori portoghesi di sinistra, parzialmente delusi dalle rigidità ideologiche del suo successore – Pedro Nuno Santos – che, sconfitto al fotofinish nella corsa al premierato da Luis Montenegro, si è limitato a sistemarsi sulla sponda del fiume per prendersi la rivincita. Costa, al contrario, è un funambolo della flessibilità. Anche perché pure nella vita privata ama dilettarsi con i puzzle, si diverte a ricomporre in ordine i frammenti apparentemente meno incastrabili.

Nato a Lisbona, è lui stesso un mosaico di razze. Indiano (con radici a Goa) da parte di madre, franco-portoghese da parte di padre. Figlio di due scrittori, non ha recepito le inclinazioni letterarie. Ha una moglie insegnante e due figli defilati. Un fratello giornalista che nei suoi editoriali non gli ha risparmiato qualche rilievo sia pure affettuoso.
Costa ha studiato legge e negli anni giovanili ha brevemente esercitato la professione di avvocato. Ma è stato quasi subito fagocitato dalla politica. Leader prima della gioventù socialista. Sindaco poi di Lisbona, che ha svecchiato diradandone il velo di malinconia e trasformandola in una metropoli moderna, capitale della rivoluzione digitale. Primo ministro, infine, per dieci anni appoggiato prima dai partitini di estrema sinistra e poi, con la maggioranza assoluta, in navigazione solitaria. Un lungo periodo in cui ha risanato l’economia al punto da far apparire, pur tra evidenti contraddizioni, il Portogallo addirittura come un modello virtuoso di sviluppo.
Il successo non gli ha montato la testa. Finché ha potuto è andato regolarmente allo stadio a tifare per il suo Benfica. Girava senza scorta per le strade di Lisbona. Una sera si presentò a piedi con la moglie e una coppia di amici in un ristorante italiano in cui non aveva prenotato. Il proprietario gli fece presente che avrebbe dovuto attendere. O spostarsi in un altro suo ristorante lì nei dintorni. Costa ringraziò e si avviò sempre a piedi, senza fare storie, verso la nuova destinazione..
Uno dei suoi pregi è quello di riuscire a farsi legittimare anche dagli avversari che al massimo gli rimproverano un eccesso di disinvoltura e a volte di cinismo. Durante il periodo cupo della pandemia, contrassegnato da drammatiche restrizioni di libertà, l’allora leader dell’opposizione Rui Rio si schierò al suo fianco con un discorso che rivelava un alto senso dello Stato: “Lei è mio primo ministro e in un momento così difficile non intralcerò mai le sue decisioni”.

Nei vertici europei grazie alla sua empatia è diventato amico di tutti. Soprattutto di Ursula von der Leyen (la tedesca riconfermata a capo della Commissione europea, l’esecutivo dell’Unione) che gongola all’idea di essersi sbarazzata del belga Charles Michel. Perfino del premier ungherese Orban, distantissimo dalle sue idee, cha gli ha garantito il suo appoggio. E lo stesso Montenegro, il rivale interno, si è battuto come un leone per la sua nomina al Consiglio europeo privilegiando gli interessi nazionali sulle meschine rivalità.
Nel vertice di Bruxelles per la designazione dei top jobs non ha avuto rivali, mettendo a tacere anche gli scetticismi di chi riteneva troppo tolleranti le sue misure contro i flussi migratori. Fra i leader importanti gli ha votato contro solo Giorgio Meloni. Ma anche in questo caso, apprestandosi a comporre il puzzle, lui ha opposto un bonario sorriso. “In fondo la capisco, Ma lavorerò bene anche con lei”.