Il siciliano, lingua o dialetto? Dilemma irrisolto negli Stati Uniti.
La professoressa d’italiano, Filomena Sorrentino, pubblica in La Voce di New York, una interessante intervista fatta al Professor Giovanni Ruffino dell’Università degli Studi di Palermo, intitolata: Parli siciliano? Ma è una lingua o un dialetto? Giovanni Ruffino “arrispunni.”
Questa intervista, pubblicata oltre sette anni fa, continua a suscitare varie reazioni e polemiche, specialmente perché l’assunto di come definire il siciliano (compreso gli altri dialetti italiani) rimane ancora irrisolto e aperto a speculazioni qui negli Stati Uniti.
Il Prof. Ruffino, senza dare alcun peso o amplificazione, risponde che sia meglio riferirsi al siciliano “dialetto,” più che una lingua. Dalla reazione en passant si vede che in Italia questo assunto non rappresenta alcun problema linguistico, che forse si è risolto o che pochissime persone, fra cui soprattutto gli stessi siculi, sostengono il contrario.
Fra questi, il Prof. Gaetano Cipolla (St. John’s University), da oltre quarant’anni autorità del siciliano e di una sua grammatica negli Stati Uniti, in quanto autore di molti libri specializzati e di due riviste – Sicilia Parra e Arba Sicula -, pubblicati anche in Sicilia.
Altri convinti che il siciliano sia una lingua, e che rispondono alla professoressa Sorrentino, è Francesco Aglieco e pure un certo Zauberwolf Ezekiel, il quale, non solo difende la stessa posizione, quanto trova “curioso che il siciliano – il professore Ruffino – assunto all’accademia della Crusca sia disposto a degradare la lingua siciliana a dialetto.”
Stando ai fatti storici, la soluzione a questo problema potrebbe essere duplice: le posizioni sono entrambe altrettante corrette.
Ricapitolando. Durante il Medioevo, dato che i mezzi di trasporto erano lenti, costosi, difficili e pericolosi, le persone raramente si spostavano fuori dai loro paesi, che potevano estendersi fino a città-stati. Per cui la parlata locale era favorita: a Napoli si parlava il napoletano, a Milano vinceva il milanese, a Palermo dominava il Palermitano, e così via.
Con l’unificazione italiana (1861-70), si cominciò a tendere verso una “lingua nazionale.” Per citare un aneddoto: gli eletti al Parlamento si riunirono alla prima sessione, ma tutti si sentirono a disagio perché non avevano una lingua comune, ma potevano parlare solo il loro dialetto. Rimasero per qualche tempo muti senza poter esprimere i loro pensieri.
Uno dei personaggi chiave nel nuovo Stato fu il senatore Alessandro Manzoni (1785-1873), già poeta famoso e romanziere di spicco: tradusse volutamente il suo romanzo di spicco I Promessi Sposi dal dialetto milanese al fiorentino per dimostrare la necessità urgente di una lingua nazionale. Resta famoso il suo detto: “Vado a sciacquare (pulire) i miei panni (la lingua) nell’Arno (a Firenze)”.
Dunque, per “convenzione” storica e politica (ma anche per i contributi linguistici ottenuti da Dante, Petrarca e Boccaccio, che avevano usato già il dialetto fiorentino) l’Italia riconobbe la lingua del centro come il miglior idioma da adottare per l’intera Repubblica neonata.
Da allora in avanti, non per “degrado linguistico”, ma più per “convenzione politica” e per evitare confusione, il siciliano, e con esso tutti i linguaggi locali, si denominarono “dialetti” (che deriva dalla parola “dialogo”, cioè “parlare”), in opposizione alla nuova lingua nazionale.