È uno dei cavalli di battaglia elettorali della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: la lotta all’immigrazione. La premier mercoledì 5 giugno – a quattro giorni dal voto per il Parlamento europeo – è tornata in Albania – in quello che le opposizioni hanno definito uno “spottone elettorale” – a visitare il sito dove dovrebbe sorgere il centro dove intende spedire una parte dei migranti che cercano accoglienza in Italia. Martedì 4 aveva ribadito con soddisfazione che gli sbarchi sulle coste italiane sono in diminuzione del 60% (dal primo gennaio al 28 marzo 2024 rispetto allo stesso trimestre del 2023; in verità è comunque uno dei dati più alti degli ultimi anni, 20.865 persone; quello del 2023 era un record). All’inizio di aprile aveva prorogato per altri sei mesi lo stato di emergenza in merito ai migranti, e attribuisce i buoni risultati alla sua politica all’accordo stipulato con la Tunisia (a imitazione di quello esistente con la Libia) perché in cambio di investimenti il paese nordafricano impedisca la partenza delle barche.
Vediamoli, questi accordi con l’estero. Quello con la Tunisia è stato firmato con l’Unione Europea (con tanto di viaggio congiunto lo scorso autunno Meloni-presidente della Commissione Ue Von der Leyen). L’accordo con la Libia – di recente rinnovato – fu firmato la prima volta nel 2016 dall’Italia con il governo provvisorio di Tripoli da un governo di larghe intese che aveva Paolo Gentiloni (Partito Democratico) come premier. Il fiore all’occhiello, il completamento della strategia meloniana dovrebbe essere appunto la creazione in Albania, paese alleato e vicino, sull’altra sponda dell’Adriatico di fronte alla Puglia, di campi dove mandare direttamente le persone raccolte in mare perché aspettino lì l’esito della loro richiesta d’asilo prima di porre piede sull’italico suolo.

L’accordo firmato nel novembre 2023 a Roma con il premier albanese Edi Rama prevede un costo di 653 milioni di euro su 5 anni. Prevedeva due centri in due località del nord dell’Albania, uno per la prima accoglienza nel porto di Shengijn, il secondo, come centro di permanenza e rimpatrio per i richiedenti asilo, a Gjaeder. Solo che sarebbero dovuti entrare in servizio a fine maggio.
Mercoledì in Albania, Meloni ha assicurato a fianco di Rama che “il complesso dei due centri sarà operativo dal primo agosto 2024. Partiremo da più di mille posti attualmente, che arriveranno ai 3mila previsti dal protocollo”. In effetti è stato completato – in gran fretta – il centro di prima accoglienza, mentre quello di permanenza è in costruzione. Ma non basta: “Questo accordo sta diventando un modello, qualche settimana fa circa 15 nazioni europee su 27, hanno sottoscritto un appello alla Commissione per chiedere, fra le altre cose, che segua il modello italiano”, ha aggiunto Meloni.
Le polemiche su questo accordo albanese sono infinite. Prima di tutto su quanto ci vorrà davvero per realizzare i centri. Il premier albanese, amico personale di Meloni, intervistato dai giornali italiani ancora in maggio aveva dichiarato che la colpa dei ritardi è tutta della logistica italiana. Numero due: alcuni media italiani affermano che nella zona prescelta pullula la mafia albanese che potrebbe mettere mano al traffico di migranti. Numero tre: si parla di tremila migranti che dovrebbero ruotare nei centri albanesi, una frazione del totale. Meloni ha risposto dall’Albania: “L’elemento di maggiore utilità di questo progetto è che può rappresentare uno straordinario strumento di deterrenza a chi vuole raggiungere irregolarmente l’Europa, e di contrasto ai trafficanti. E questo vuol dire portare a un contenimento dei costi”. “L’accordo potrebbe essere replicabile in molti Paesi”, ha quindi aggiunto, e “potrebbe diventare una parte della soluzione strutturale dell’Unione europea. Lo capiamo noi e lo capiscono i sostenitori dell’immigrazione incontrollata che lo contestano”.

ANSA/ UFFICIO STAMPA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO
Il quarto aspetto però è il più rilevante per le associazioni umanitarie – anche detti “i sostenitori dell’immigrazione incontrollata” – e per la coscienza: ovvero, se mandare i possibili richiedenti asilo in un paese terzo rispetti le norme internazionali sull’accoglienza (sancite in primo luogo dalla Convenzione di Ginevra).
Gli accordi con Tunisia e Libia (e l’accordo europeo con la Turchia, che ha lo stesso scopo) mirano a impedire le partenze; poco importa che questi significhi non che la migrazione si arresti… ma che si fermi fuori dai confini europei, anche se si tratta di centinaia di migliaia di persone bloccate in situazioni di disagio, igiene precaria, futuro sospeso, con il corollario di violenza, stupri, mancanza di assistenza sanitaria, di istruzione per i bambini. Tutto ciò va benissimo a Meloni che ha sempre dichiarato che il problema della migrazione non è riuscire ad accogliere i migranti ma bloccarne le partenze, immaginando un futuro roseo in cui grazie all’assistenza europea nessuno voglia più lasciare l’Africa.
La soluzione piace però di tutta evidenza anche all’Europa Unita e ai paesi che la compongono, con notevole ipocrisia per una entità che si ammanta del ruolo di paladina dei diritti umani.
Quando però si tratta di spostare in un paese terzo l’attesa delle domande d’asilo, la questione si complica. Ci ha provato anche il governo conservatore britannico con un accordo con il Rwanda, bloccato de facto dai tribunali inglesi, per ora sospeso in attesa delle elezioni di luglio e probabilmente archiviato per sempre se vinceranno i laburisti, come dicono i sondaggi.
In Europa, l’Italia è il primo paese a provarci. Ma quali saranno le condizioni di accoglienza? E chi garantisce che in un paese terzo i migranti sbarcati, provati dal viaggio e ignari dei loro esatti diritti e della lingua locale, trovino l’assistenza legale necessaria a tutelarli e presentare le loro richieste il prima possibile senza errori burocratici?
Giorgia Meloni – e magari altri paesi Ue – non sono i soli però a voler “esternalizzare” l’accoglienza. A parte il Regno Unito, la CNN ha rivelato alcuni giorni fa che anche l’amministrazione Biden vorrebbe spostare una parte dei migranti sudamericani che cercano asilo in Usa lontano lontano… in Italia o in Grecia. Il ministero dell’Interno italiano ha replicato ai media che l’Italia è indisponibile.
Destra o sinistra, liberal o conservatori, nessuno osa opporsi al dogma che bisogna mettere ferrei paletti alla migrazione perché “non c’è posto per tutti”. Di sicuro è quello che pensa anche l’opinione pubblica, timorosa di veder erodere la propria identità e le proprie tutele. Per questo l’intero tema “migrazione” diventa prioritario nelle infinite campagne elettorali di quest’anno, terreno di propaganda più o meno becera per molti in Ue (tutti i partiti di estrema destra fra cui Vox in Spagna, alleata di Meloni; le formazioni di Marine Le Pen e Eric Zemmour in Francia; l’AfD in Germania; tutti brandiscono lo spettro dei migranti come la peggiore minaccia per la nostra sopravvivenza); e comunque terreno a cui nessuno si sottrae di fronte a un elettorato che vuole rassicurazioni.
Esiste, questa minaccia? Vale la pena ricordare che in Italia, il governo fissa ogni anno con il “decreto flussi” il numero degli ingressi di migranti che i datori di lavoro possono richiedere. Per il 2024 la cifra era di 151mila persone, di cui oltre 61mila per lavoro non stagionale e lavoro familiare (le “badanti”), 700 appena per lavoro autonomo, oltre 89mila per lavoro subordinato stagionale (settore turismo e agricoltura). Bisogna prenotarsi sul sito del ministero dell’Interno e i media li hanno soprannominati “click day”, perché le aziende interessate sono pronte con l’indice alzato, ogni anno. Volete sapere se i posti sono sufficienti?
In questo 2024, secondo i dati del ministero dell’Interno di Roma nei tre “click day” dal 18 al 25 marzo sono state depositate 690mila domande, moltissime nei primi 5 minuti. Il lavoro, dunque, non mancherebbe.
Eppure, Meloni sempre il 4 giugno si è recata personalmente negli uffici romani della Procura nazionale antimafia per incontrare il procuratore nazionale Giovanni Melillo e consegnargli un “esposto” che denuncia l’ingresso ‘irregolare’ di lavoratori stranieri attraverso i decreti flussi, manipolati a quanto pare da organizzazioni criminali. Sarebbe vero soprattutto per il settore dei braccianti agricoli, perché in alcune regioni sarebbero stati concessi molti più permessi di lavoro di quante fossero le domande inoltrate dalle aziende. Regione numero uno nella lista delle ipotetiche truffe, la Campania, regno della camorra, e incidentalmente governata da quel Vincenzo De Luca del partito democratico con cui la premier ha ormai una battaglia aperta.