È sbarcato nella mattinata locale di lunedì all’aeroporto di Riad il segretario di Stato americano Antony Blinken. L’Arabia Saudita è la prima tappa dell’ennesima missione del ministro degli Esteri di Biden in Medio Oriente – settima in altrettanti mesi di conflitto tra Israele e Hamas. Più che viaggi diplomatici, insomma, una routine da pendolare.
In cima all’agenda del capo-diplomatico è giocoforza la drammatica crisi umanitaria innescata dall’operazione militare dello Stato ebraico nella Striscia di Gaza. Intervenendo a un evento del World Economic Forum nella capitale saudita, il segretario di Stato ha ribadito che Washington è in pressione su Tel Aviv affinché aumenti il flusso di aiuti verso l’enclave costiera assediata.
Per alleviare la sofferenza della popolazione civile palestinese, sostiene Blinken, l’opzione più semplice – sulla carta, ma assai meno nei fatti – sarebbe quella di concludere un cessate il fuoco in grado di soddisfare in parte ambedue i belligeranti. In sostanza, la liberazione di decine di ostaggi israeliani e di un numero imprecisato di palestinesi detenuti nelle carceri dello Stato ebraico (come già collaudato con successo nelle trattative di fine anno scorso).
Uno dei problemi principali riguarda però proprio il numero di ostaggi effettivamente nella disponibilità di Hamas. Secondo l’intelligence di Tel Aviv, i mujaheddin anti-sionisti deterrebbero solamente 33 ostaggi “vivi” sui 133 totali che si stima ingabbiati nella babele di bunker sotto la Striscia. Il resto sarebbe già morto oppure sotto custodia di altre milizie islamiste in rapporti più o meno stretti con Hamas.

“Hamas ha ricevuto una proposta straordinariamente generosa da parte di Israele e in questo momento l’unica cosa che si frappone tra la popolazione civile di Gaza e un cessate il fuoco è proprio Hamas”, ha dichiarato Blinken a proposito della possibile tregua allo studio dei militanti palestinesi. “Devono decidere e devono farlo in fretta“, ha chiosato il capo-diplomatico di Biden, sostenendo di essere “fiducioso” che la milizia “prenderà la giusta decisione”.
Ma di cosa si parla esattamente? La proposta di tregua è in realtà di un piano suddiviso in due fasi: nella prima è prevista la liberazione di 20-33 ostaggi nell’arco di 40 giorni, in cambio di un cessate il fuoco e del rilascio di un numero non noto (ma superiore a quello di israeliani) di detenuti palestinesi.
La seconda fase, definita dai negoziatori come fase del “ripristino della calma sostenibile” comporta lo scambio degli altri detenuti palestinesi con tutti gli altri ostaggi – compresi i cadaveri e i soldati delle Forze di difesa israeliane (IDF).
Una risposta definitiva sulla tregua è attesa da Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza, entro pochissime ore. La delegazione di Hamas arrivata in queste ore in Egitto ha spiegato che intende chiarire i punti della risposta di Israele prima di presentare la propria risposta finale.
Se non si dovesse raggiungere un accordo, tuttavia il timore è che Israele rompa gli indugi e, incurante dei moniti umanitari di Biden, lanci il paventato assalto di terra a Rafah, ultima roccaforte di Hamas nella Striscia dove peraltro si è accampato oltre un milione di rifugiati palestinesi sfuggiti da Gaza. Dopo la tappa saudita Blinken si recherà appunto in Israele per ribadire a Benjamin Netanyahu la netta contrarietà della Casa Bianca a quella che potrebbe diventare l’ennesima catastrofe umanitaria nella regione.

Nel suo viaggio mediorientale Blinken sarà chiamato a discutere anche della governance post-bellica di Gaza. Washington si è detta pronta a fare la parte del leone per finanziare della ricostruzione della Striscia. Nei piani statunitensi, l’amministrazione dell’enclave passerebbe in seconda istanza all’Autorità palestinese, volto istituzionale della causa palestinese che attualmente governa la sola Cisgiordania (dopo essere stata estromessa manu militari dalla Striscia nel 2007 proprio da Hamas).
Il piano per il medio-lungo futuro è quello di porre le basi per una soluzione più duratura, fondata sui due Stati – quello israeliano e quello palestinese. In caso di istituzione di una Palestina indipendente nei confini precedenti la Guerra dei sei giorni del 1967, Hamas si è persino detto pronto a deporre le armi e a trasformarsi in semplice movimento politico. Sulla soluzione dei due Stati pesa però il fermo diniego di Israele, che punta piuttosto sull’istituzione di un protettorato israeliano sul territorio per evitare che si ripetano incursioni omicide come quelle dei miliziani islamisti dello scorso ottobre.
Le prossime ore saranno decisive non solo per sapere se Hamas darà il via libera a una nuova e più duratura tregua ma anche per il futuro personale di Netanyahu, che potrebbe vedersi notificare un clamoroso mandato di arresto da parte della Corte penale internazionale nell’ambito delle indagini, chieste mesi fa dal Governo sudafricano, sui presunti crimini di guerra commessi a Gaza.
“Bibi” e altri alti funzionari israeliani potrebbero venire formalmente accusati di aver impedito la consegna di aiuti umanitari alla Striscia di Gaza e di aver risposto in maniera spropositata agli attacchi del 7 ottobre, costati la vita a circa 1.200 tra civili e militari. Secondo fonti israeliane, il tribunale dell’Aja starebbe inoltre valutando di emettere mandati di arresto anche per alcuni leader di Hamas.
Commentando le indiscrezioni, venerdì scorso il premier israeliano aveva messo le mani avanti preannunciando sui propri canali social che qualsiasi intervento della CPI “creerebbe un pericoloso precedente che minaccia i soldati e i funzionari di tutte le democrazie che combattono contro il terrorismo efferato e l’aggressione gratuita”.