“Haiti è travolta dalla peggiore crisi umanitaria della sua storia – a raccontarlo è Dorica Taz Phiri responsabile dell’UNICEF. – Ma rispetto al passato la popolazione ha iniziato a reagire. Non si affida più alle autorità locali per difendersi. Forse anche spinta dalla disperazione ha iniziato a isolare interi quartieri con barricate fortificate e vigilanza privata”.
Abbiamo raggiunto telefonicamente Phiri che per le prossime sei settimane seguirà a Port-au-Prince le operazioni che riguardano le condizioni e la tutela dei bambini per l’Agenzia ONU.
Vivere nella capitale haitiana è diventata una lotta giornaliera che spinge la popolazione ormai allo stremo a affannarsi per vendere tutto quel poco che è rimasto, a cercare ripari sicuri mentre il banditismo travolge la polizia e gli apparati governativi che sono in gran parte assenti.
“La reazione della popolazione è stata sorprendente – continua Phiri – . Però se osservata attentamente è preoccupante, contribuisce a dividere ancora di più i quartieri. Chi in qualche modo può permetterselo potrà tutelarsi, mentre i poveri saranno sempre più isolati e per loro l’unica possibilità è la fuga. Tutto ormai è complicato, anche la distribuzione degli aiuti. Avevamo 17 container bloccati al porto, due sono stati intercettati e saccheggiati dalle bande armate. Abbiamo perso interamente il loro contenuto. Nonostante il corridoio umanitario, la situazione è paralizzata”.
Dopo il terremoto, che nel 2010 aveva colpito il Paese e aveva messo a dura prova risorse e infrastrutture, Haiti non si è mai completamente rialzata. Dal luglio 2021 con l’assassinio a Port-au-Prince del presidente Jovenel Moïse, per mano di un gruppo di sicari colombiani, la situazione rimane fuori controllo.
Da quel momento gli undici milioni di haitiani assistono inermi al deteriorarsi delle condizioni di sicurezza, ulteriormente peggiorate dallo scorso anno da azioni criminali che avevano l’obiettivo di costringere il primo ministro ad interim Ariel Henry alle dimissioni, annunciate poi il 12 marzo 2024.
“L’emergenza più grave in questo momento, oltre alla mancanza di acqua potabile, è data dalla malnutrizione. Stiamo assistendo alla perdita di una generazione di bambini” continua Phiri.

Non passa giorno che nello Stato caraibico non vengano feriti o uccisi minori che spesso vengono anche reclutati fra le fila dei gruppi armati. Secondo recenti dati UNICEF, sarebbero fra il 30% e il 50% quelli già assoldati.
“Un bambino debole è preda di chiunque senza considerare che è più vulnerabile a malattie come il colera, che ha ripreso a circolare con vigore. Nel paese ci sono 82.000 casi sospetti – spiega Phiri -. Fra i nostri compiti quello di distribuire medicinali, vaccini ma anche di attrezzare servizi igienici. Purtroppo entriamo nella stagione delle piogge, sono già tre giorni che piove e anche questo non ci aiuta”.
Le bande che controllano circa l’80% di Port-au-Prince impediscono anche il regolare svolgimento delle lezioni. “Almeno 900 scuole restano chiuse”, nonostante la cattura di alcuni fra i 4000 pericolosi fuggitivi evasi a marzo dalle prigioni.
“I più piccoli sono quelli che pagano il prezzo maggiore – dichiara Phiri. – Non possono più ricevere un’istruzione adeguata. Cerchiamo di aiutare come possibile fornendo materiale scolastico, ma finché la situazione non si normalizza, nessuno è pronto a assumersi i rischi di una riapertura”.
Chi ha potuto farlo ha premuto il piede sull’acceleratore ed è scappato. Oltre 95.000 persone sono fuggite da Port-au-Prince in un solo mese, ma coloro che se ne vanno spesso non arrivano a destinazione perché rischiano di essere uccisi quando attraversano le aree controllate dalle gang.
“Mentre le violenze continuano, oltre 160.000 persone non hanno più una casa. Non arrivano finanziamenti e noi facciamo affidamento soltanto sui nostri donatori”, conclude Phiri.