La pizza non è italiana. O perlomeno non lo è quella come la conosciamo noi tutti oggi, ricca e golosa, farcita con passata di pomodoro e mozzarella. Ad affermarlo più di una volta, suscitando lo sconcerto di molti italiani e l’incredulità in altrettante persone in tutto il mondo, è Alberto Grandi, professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma, dove insegna anche Storia dell’integrazione europea.
Quella che potrebbe sembrare una provocazione è, in realtà, il frutto di svariate ricerche scientifiche nel campo alimentare a cui egli si dedica da tempo. “Sono sei anni che ho fatto questa affermazione – chiarisce Grandi, contestualizzando storicamente il discorso. – Tutte le testimonianze della pizza risalgono a fine 1800, periodo in cui è descritta in modi diversi, ma tutti concordi sul fatto che è poverissima e schifosa. Si tratta di un prodotto molto povero. Cito spesso Collodi a tal proposito: È una schiacciata bruciacchiata e sudicia”.
Un altro esempio lampante che Grandi riporta a sostegno della propria tesi è la documentazione che ci giunge dalla scrittrice partenopea Matilde Serao, la quale ripercorre le abitudini alimentari dei napoletani di fine Ottocento, descrivendo la pizza come un prodotto difficilmente commestibile. “Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano” recita il suo libro Il ventre di Napoli (1884), nel capitolo Quello che mangiano.
Da qui sorge spontanea una domanda: se la pizza non è napoletana, come mai avviene questa associazione immediata nell’immaginario collettivo? “Perché è da lì che partono molti italiani immigrati in America – racconta con enfasi Grandi. – Ma è solo lì che questo alimento diventa business: cambiano le sue modalità di consumo ed esso si arricchisce dal punto di vista qualitativo, poi si standardizza. Verso la fine della Prima Guerra Mondiale, la pizza viene rinnovata negli ingredienti e nella preparazione e quindi consumata dagli americani stessi. Si crea un vero e proprio mercato attorno a essa. La ricetta perfezionata torna in Italia e pian piano si fa strada nella Penisola.” Il professore menziona un aneddoto risalente alla Seconda Guerra Mondiale: “Allora le pizzerie pullulavano in America, mentre in Italia non esistevano. Quando arrivarono da noi i soldati americani, questi rimasero straniti davanti a una simile presa di coscienza”.
La pizza dunque non vanta alcuna storicità né paternità italiana. Non è il parto di una lunga tradizione culinaria tricolore, bensì un’invenzione decisamente recente, che parte da origini ben poco nobili. “Ricordiamoci che la pizza – continua Grandi, – prima di essere migliorata in terra americana, era una semplice focaccia condita con aglio oppure grasso di maiale, pomodori a pezzi o pesciolini”. Di questa transizione da bruco a farfalla, ne parla meglio nel suo ultimo libro La cucina italiana non esiste, scritto con Daniele Soffiati insieme al quale ha anche realizzato il podcast DOI – Denominazione di Origine Inventata. Il tema portante è la cucina italiana in America e, in onore di questa immigrazione, gli autori dedicano un intero capitolo alla pizza.
Nel libro si menziona tuttavia anche la parola marketing in riferimento al concetto di cucina tradizionale. “La storia si vende – esordisce il professore. – “È un ottimo prodotto. Quando noi parliamo di tradizioni, lo si fa per rendere un piatto più accattivate”. E poi cita Paul Bloom, professore di Psicologia all’università di Yale, il quale sostiene che un piatto piace non per il suo gusto ma per ciò che si sa sul suo conto. E il marketing marcia proprio su questo aspetto. Grandi approfondisce il pensiero chiarendo che: “Noi italiani siamo arrivati per ultimi in questo. Abbiamo costruito la cucina all’ultimo, considerando che fino agli anni ’50 eravamo morti di fame e immigrati. All’epoca si mangiava meglio in Belgio che in Italia. I nostri immigrati avevano acqua e farina di mais, nient’altro. Per tale ragione si può affermare che non abbiamo una tradizione da insegnare: il nostro contributo è stato imparare a far da mangiare”.
In sintesi, i piatti italiani sono buoni in quanto esito di contaminazioni e non perché tradizionalmente ereditati. Un discorso che è applicabile, conferma Grandi, a tutte le cucine del mondo. “Perché per noi italiani è diventata così identitaria la cucina? Io non ho ancora una risposta definitiva. Le cucine di tutti i Paesi sono identitarie e, soprattutto, sono sempre contaminate. Basta pensare al sushi: quello che mangiamo noi ovviamente non è quello del Giappone. E quello che mangiamo oggi non è quello che mangeremo tra vent’anni. Il pomodoro ha impiegato due secoli per diventare un ortaggio di cui nutrirsi, all’inizio sembrava velenoso”.
Alla luce di tali riflessioni, il professore arriva alla conclusione che è dunque scorretto forzare una correlazione totale tra la cucina e l’identità di un dato territorio poiché, per quanto ogni nazione si rifletta nel proprio cibo, questo è comunque un oggetto in fieri.
Nella consapevolezza che in molti non appoggino tale punto di vista, egli porta avanti il proprio lavoro di storico, accettando con tutta onestà di essere disposto a ritornare sui propri passi qualora evidenze scientifiche lo smentiscano “Sono pronto a riconsiderare le mie idee nel momento in cui si scoprono documenti che dicono il contrario. A oggi, il mio mestiere è mettere in fila i fatti”.