Oltre 140 millimetri di pioggia torrenziale si sono abbattuti per 24 ore su Dubai martedì 16 aprile, causando la chiusura di scuole in via precauzionale e costringendo l’aeroporto internazionale a cancellare oltre 50 voli.
Un evento che non si verificava in una forma tanto violenta dal lontano 1949 e che, pertanto, ha creato non pochi dubbi, specie da quando è stata chiamata in causa l’ormai rinomata tecnica di cloud seeding (inseminazione delle nuvole). Si tratta di un metodo di stimolazione artificiale delle precipitazioni basandosi sull’iniezione all’interno delle nuvole di sali quali ioduro d’argento o cloruro di sodio, in grado di favorire il processo di condensazione del vapore acqueo e dunque di indurre alla pioggia. Ogni nuvola inseminata acquisisce un aumento della possibilità di precipitazioni fino al 20%, secondo l’Organizzazione Meteorologica Mondiale.
La polemica nasce dal fatto che il Centro nazionale di meteorologia di Dubai ha espressamente dichiarato di aver praticato questa tecnica nei giorni precedenti al disastro, tra il 14 e il 15 aprile, spingendo in molti a sospettare di una correlazione tra i due fatti.
In realtà, come ha meglio precisato Maarten Ambaum, professore di atmospheric physics and dynamics presso University of Reading, il nesso non sussiste “Questa tecnica negli Emirati Arabi è utilizzata per le nuvole che normalmente non producono pioggia … di solito non si riesce a sviluppare un importante temporale da condizioni simili”. Dello stesso avviso è Friederike Otto, senior lecturer in climate science presso Imperial College London, la quale sottolinea che “L’inseminazione delle nuvole non può creare nuvole dal nulla. Incoraggia l’acqua che è già presente in cielo a condensare più velocemente e a farla cadere in determinati posti. Quindi per prima cosa serve umidità. Senza di essa non ci sono nuvole”.
Tale tecnica dunque non ha il potere di dettare legge sulle precipitazioni bensì di agevolare condizioni preesistenti favorevoli all’insorgenza di pioggia. Un esempio eclatante da tale punto di vista risale al periodo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, quando in Italia, per la precisione in Basilicata, Sardegna, Puglia e Sicilia, si adottò tale sperimentazione: se i primi risultati furono incoraggianti (con un aumento delle precipitazioni del 30% rispetto alla media dei cinquanta anni precedenti), in seguito una siccità prolungata si abbatté sulle regioni in esame, proprio in virtù del fatto che le nuvole non erano sufficientemente cariche di umidità.
Attualmente, tale tecnica è utilizzata in tutto il mondo, specie in Paesi che vanno incontro a periodi di siccità come gli Emirati Arabi e la Cina, ma interessa anche zone come gli Stati Uniti, dove hanno sede colossi del settore. La Weather Modification Inc., in North Dakota, ne è una valida testimonianza e vanta contratti in tutto il mondo, tra cui uno di notevole importanza con l’Arabia Saudita.
Al di là dei legami con altri gli paesi, gli Stati Uniti sfruttano tale tecnica anche per far fronte a necessità interne: in Texas, Utah, Nevada, Colorado, California, Idaho e in New Mexico oltre a potenziare l’afflusso di pioggia, viene usata per prevenire la grandine o per facilitare le nevicate, ad esempio. Lo conferma The Wall Street Journal riportando l’esperienza di William e suo figlio i quali hanno coltivato circa 717 ettari di terra e piantato cotone e grano a San Angelo.
Altri impieghi significativi sono in ambito agricolo: il cloud seeding si presenta come una valida alternativa a ben più costose soluzioni tecnologiche usate per desalinizzare l’acqua proveniente dall’Oceano Pacifico o dal Golfo del Messico.