Sei mesi, mezz’anno, migliaia di morti e l’unica cosa che è veramente chiara è proprio la mancanza di chiarezza. Pretendere una forma di onesta, in tempi di guerra, è sempre stato assurdo e quando una dei campi di battaglia – quello dell’informazione – è più fondamentale oggi che rispetto al passato. Lo scontro, i suoi effetti sui civili e i possibili sbocchi sono ancora più difficili da comprendere o prevedere. La guerra che si combatte in Israele, a Gaza, nella Cisgiordania occupata viene definita la più lunga nella storia dello Stato nato nel maggio 1948. È vero e non è vero perché questi sei mesi sono il triste proseguimento della guerra cominciata, appunto, settanta e passa anni fa.
I giochi politici tra Stati Uniti e Israele sono abbastanza comprensibili anche se non necessariamente accettabili. E’ un anno elettorale in Usa – a vederlo dall’estero, uno dei più brutti della democrazia americana – e onestà e coerenza sono opzioni da valutare in termini di possibili voti. Il futuro di Israele è importante, ancora più importante salvare la democrazia americana o almeno la sua immagine. C’è voluto l’uccisione di sette operatori sanitari per indurre il presidente americano ad alzare la voce con il premier israeliano. Quasi 34 mila palestinesi – in gran parte civili non combattenti – sono morti sotto i bombardati indiscriminati israeliani della striscia di Gaza, e la Casa Bianca si è limitata a sgridare Netanyahu mentre confermava l’invio di massicci rifornimenti militari che consentiranno altri massacri e distruzioni. La guerra, l’assalto a quello che resta dei capi e dei miliziani di Hamas, andrà avanti, ha confermato ieri il ministro della difesa israeliano quando ha annunciato il ritiro di quasi tutti i reparti combattenti di terra dal Sud di Gaza. Qualcuno ha voluto interpretare l’annuncio come un “cedimento” israeliano di fronte alle proteste americane e di buona parte dei Paesi storicamente vicini a Israele. La verità è ben diversa: un nuovo fronte rischia di allargarsi. Dopo il bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco, Teheran minaccia una forte ritorsione e Israele ha spostato le truppe disponibili su altri fronti, pronte a reagire.
Per sei mesi il mondo è stato innondato di immagini e analisi della morte in Medio Oriente ma, purtroppo, c’è ancora molta gente che guarda gli orrori passare veloci sugli schermi tv, legge notizie e analisi sui siti di un web sempre più superficiale o di parte e non riesce a indicare su una carta geografica dove si uccide, dove si muore. Eppure dovrebbero essere sufficienti le foto riprese dall’alto della Striscia devastata dalle bombe, dai bulldozer militari, per capire ma non giustificare la portata dell’azione militare israeliana cominciata dopo il massacro dei civili compiuto dai militanti di Hamas e di altre milizie palestinesi nelle comunità ebraiche israeliane a ridosso di Gaza.
TOPSHOT – Palestinians who had taken refuge in Rafah, leave the city to return to Khan Yunis after Israel pulled its ground forces out of the southern Gaza Strip, on April 7, 2024, six months into the devastating war sparked by the October 7 attacks. Israel pulled all its troops out of southern Gaza on April 7, including from the city of Khan Yunis, the military and Israeli media said, after months of fierce fighting with Hamas militants left the area devastated. (Photo by MOHAMMED ABED / AFP) – Credit: Ansa
“Dovrebbe essere sufficiente raccontare quel massacro per giustificare quello che sta facendo Israele a Gaza”, dicono alcuni sostenitori della politica di Netanyahu e del suo governi, eppure mai nelle guerre ci sono stati massacri buoni e altri meno buoni. Ci sono stati, quasi sempre, obiettivi da raggiungere, da una parte o dall’altro. I palestinesi hanno sempre combattuto per avere un loro Stato: al posto di Israele o accanto a Israele sulla stessa terra. Gli ebrei hanno combattuto e ottenuto uno Stato ma non hanno mai definito i suoi confini lasciando aperta la possibilità di conquistare altra terra e allargarsi. I palestinesi continuano a perdere terre di fronte all’avanzata costante delle colonie ebraiche (alcune approvate da Israele in questi ultimi mesi) in Cisgiordania.
Per chi cerca di capire Netanyahu e i suoi alleati di governo va ricordato che fino a non moltissimi anni fa la piattaforma politica del Likud, il partito di centro nel quale il premier israeliano militava e fece carriera politica, il partito dei più famosi “padri della patria” Begin e Shamir, parlava di creare uno stato ebraico sul territorio che andava “dal Mediterraneo al fiume Giordano”. Rivendicazione ripetuta recentemente da alcuni dei ministri e degli attivisti, tutti ebrei, nell’attuale governo di centro-destra. Rivendicazione che si è spesso sentito dalle formazioni politiche palestinesi.
A sei mesi dall’attacco dei militanti di Hamas e dalla risposta delle forze armate israeliane è importante sottolineare alcune certezze. Israele, basandosi su elementi religiosi e percezioni che vanno indietro nei secoli può definirsi la patria degli ebrei ma va ricordato che nel 2020 gli abitanti di Israele, i suoi cittadini erano soltanto per il 74% ebrei, per il 18% musulmani, per il 1,9% cristiani, per 1,6% drusi e per il restante 4,5% altri. Anche per questo attribuire il massacro in corso nella Striscia di Gaza agli ebrei – senza specificare agli ebrei israeliani – è come se durante la Seconda Guerra Mondiale americani e altri avessero incolpato milioni di italiani residenti negli USA delle leggi razziali proclamate da Mussolini, dei massacri compiuti nella Penisola e altrove dai fascisti italiani, delle orribili complicità di Mussolini e dei suoi seguaci con Hitler e il suo mondo.
E ora? E domani? Forse ci sarà una pausa nei combattimenti, forse anche un mini-scambio di ostaggi – prigionieri palestinesi. Di sicuro la guerra continuerà senza un progetto politico per il futuro. Uno “Stato palestinese” accanto a Israele? Al massimo una fantasia politica-diplomatica per calmare le acque. La popolazione ebraica israeliana è divisa su molte scelte politiche ma non è mai stata così unita nella paura. Di Hamas certamente, dei palestinesi tutti, ma ancora di più per l’incredibile, inspiegabile, fallimento dei servizi d’intelligence di Tel Aviv, considerati fino a sei mesi fa i migliori del mondo.