NEW YORK: Mike Pence, John Bolton, Bill Barr, Jeff Sessions, Rex Tillerson, John Kelly, James Mattis, Mark Esper….
Chi sono costoro? Sono tutti ex membri del Gabinetto dell’Amministrazione Trump. Il vicepresidente, il consigliere per la sicurezza nazionale, i ministri della Giustizia, degli Esteri, della Difesa. Nomi che – se questa fosse una stagione politica tradizionale – ci aspetteremmo di vedere al fianco di Trump, impegnati a sostenerlo per la sua rielezione. E invece, i membri della sua Amministrazione scesi in campo sono pochissimi, poco noti e poco ascoltati. Perfino sua figlia Ivanka non si fa vedere, e la stessa moglie Melania si è vista solo una volta e per pochi minuti.
Non parliamo poi dell’ala istituzionale del partito. L’ex presidente George Bush Jr. lo evita come la peste. Il suo vicepresidente, Dick Cheney, ha addirittura fatto un video contro Trump. L’ex candidato alla presidenza nel 2012, Mitt Romney, ha detto che non voterà per lui, figuriamoci fare campagna per lui! L’attuale speaker della Camera Mike Johnson lo sostiene, ma dei tre suoi predecessori – Kevin McCarthy, Paul Ryan e John Boehner – solo McCarthy ha detto tre mesi fa che lo avrebbe appoggiato, ma poi non si è più fatto vedere, mentre gli altri due hanno espressamente chiarito che non lo sostengono.

Per dirla chiara e semplice: Trump è fondamentalmente solo. A parte Christopher Joseph LaCivita, il direttore della sua campagna elettorale, un professionista con una grande esperienza consolidata alle spalle (al quale comunque Trump dà poca retta) quando l’ex presidente tiene un comizio, al suo fianco ha solo pochi fedelissimi, ma nessuno di alto livello, e nessuno che sia stato alla Casa Bianca con lui.
E questa solitudine può costargli molto nella campagna. Soprattutto adesso che si assiste invece a un coagulare del sostegno intorno al suo rivale, Joe Biden. L’appuntamento di raccolta fondi al Radio City Music Hall di New York frutterà sicuramente molti milioni di dollari alla cassaforte del presidente. Ma servirà anche a confermare l’esistenza di un eccezionale network di solidarietà che si sta mobilitando davanti alla minaccia di una sconfitta a novembre.

Sul palco del famoso teatro di New York, Biden sarà seduto accanto al suo ex-boss, Barack Obama, e a loro volta Biden e Obama saranno seduti accanto al loro predecessore, Bill Clinton. Tre presidenti democratici, molto diversi l’uno dall’altro, ma che insieme hanno garantito anni di stabilità e crescita economica al Paese.
E in sala, tra i 3 mila invitati che pagano un minimo di 250 dollari e un massimo di 500 mila, ci sono tantissimi ex collaboratori dell’Amministrazione Clinton e Obama. La stessa direttrice della campagna di Biden, Julie Chavez Rodriguez, è stata assistente personale di Obama dopo essere stata membro della sua campagna nel 2008.
Impossibile elencare qui tutti i funzionari delle tre Amministrazioni che si sono impegnati a dare una mano per rieleggere Biden. Molti hanno risposto alla chiamata alle armi dei loro presidenti, Clinton e Obama, e quest’ultimo anzi sappiamo che già da vari mesi è in contatto quasi quotidiano con Biden per dargli consigli e organizzare la rete dei “surrogati” che dovranno portare il messaggio della Casa Bianca fin negli angoli più remoti del Paese.
I “surrogati” sono anche più necessari per Biden, che a 81 anni – seppur non sia rallentato nelle sue facoltà mentali come ha dimostrato nelle ultime settimane – è comunque rallentato fisicamente e farebbe fatica a coprire gli USA a tappeto. Ed ecco perché invece la solitudine di Trump è un danno per la sua campagna. Al di là del fatto che l’ex presidente non ha davvero nessuno di valore di cui si fidi e punta solo ed esclusivamente su se stesso, i nomi di rilievo della sua Amministrazione e del partito storico si tengono comunque alla larga. Biden invece può saturare i network tv di “surrogati” ben noti, può mandare la sua vice Kamala Harris, i suoi ministri, i suoi amici, la moglie Jill, e i colleghi ex-presidenti a fare comizi in sua vece.

Sia Obama che Clinton per di più rimangono molto popolari nel partito e attirano grandi folle. E il momento è quanto mai giusto: sull’onda del discorso sullo stato dell’Unione, che ha visto un Biden vivace e ricco di idee e promesse, il suo tasso di popolarità sta dando qualche timido segnale di ripresa. Siamo ancora lontani dal 55% che lo accolse alla Casa Bianca nel gennaio 2021, e navighiamo intorno a un modesto 40-42%, ma è un bel balzo in su dal 37% a cui era precipitato.
Intendiamoci, Biden ha un bel po’ di strada da recuperare, e il rischio di una sconfitta è palpabile, ma non è solo, mentre Trump lo è. E questo nei mesi frenetici della campagna elettorale ha un gran peso.