Il nome di Gigi Riva, spentosi inaspettatamente nella sua Cagliari a 79 anni, è scolpito da decenni nella dimensione del mito. Negli anni Settanta è stato l’icona più prestigiosa del calcio italiano. E ancor fino a ieri, nel pantheon delle vecchie glorie, la sua immagine evocava imprese epiche e traguardi leggendari scaturiti da un talento di goleador che nella penna immaginifica di Gianni Brera gli era valso il soprannome di Rombo di Tuono. Gigirriva, tutto unito come lo chiamavano i sardi, era un guerriero che affrontava le battaglie calcistiche con la postura degli eroi omerici. Non c’era ostacolo che potesse frenarlo.
Solo i molteplici infortuni, causati anche dai suoi eccessi di generosità agonistica, lo hanno provvisoriamente frenato nel corso di una carriera costellata da record e trionfi. Era un atleta dotato di una forza muscolare straordinaria. Con un fiuto del gol impressionante. E uno spirito indomito che non contemplava mai la resa. Un centravanti di altri tempi, che andava dritto in rete con una tecnica irresistibile di sfondamento. L’erede naturale di Giuseppe Meazza e Silvio Piola, i due grandi miti dell’anteguerra. Non aveva un carattere facile Gigi. Era chiuso, riservato, a volte scorbutico.
Solo nella terza età si era un po’ addolcito, sfumando le sue naturali diffidenze nel miele dei ricordi. Si trascinava i piccoli traumi di un’infanzia difficile. Nato nel ’44 a Leggiuno, in provincia di Varese, a soli nove anni aveva perso il padre per un incidente sul lavoro. La madre l’aveva cresciuto fra mille sacrifici. Era magro e allampanato, tanto da guadagnarsi il soprannome dialettale di Ul Furzelina (la forchetta). Aveva trascorso l’adolescenza in tre collegi diversi dove l’unica distrazione era il pallone. Esordio fra i dilettanti del Lavello Mombello e nel ’62 passaggio al Legnano (che allora giocava in serie C). Dove scala subito le gerarchie a suon di gol. Il disegno del destino, a questo punto, lo spinge verso la Sardegna. Il Cagliari, che in quei tempi disputava il campionato di serie B, per risparmiare sui costi di trasferta aveva ottenuto dalla Federcalcio il permesso di giocare due partite consecutive in casa e due fuori.
E, nelle due settimane da trascorrere in continente, aveva fissato la base proprio a Leggiuno. Il tecnico Arturo Silvestri e il vicepresidente Andrea Arrica cominciarono a seguire in presa diretta la maturazione del campione ancora in erba. E nel ’63 si accordarono per il suo trasferimento al Cagliari in cambio di 37 milioni di lire. L’affare rischiò di saltare per l’inserimento di Renato Dall’Ara, sanguigno presidente del Bologna, che arrivò ad offrire fino a 50 milioni. Ma il Legnano preferì mantenere la parola. In un’intervista concessa a Gianni Mura Riva descrisse dopo alcuni anni come una sorta di incubo il suo sbarco in Sardegna. Era il primo luglio del ’63. L’aereo che collegava la Malpensa a Cagliari era un vecchio modello che non superava i 4 mila metri di altezza. Non era mai stato lontano da casa.
All’arrivo trovò un caldo africano. “Volevo scappare. La Sardegna non era quella dì oggi, era il posto dove mandavano i carabinieri per punizione”. E, ancora più tardi: “Son arrivato in Sardegna massacrato dalla vita, incazzato, chiuso e anche cattivo. Mi mancava la famiglia. E reagivo male”. Ma col tempo e con i gol Riva si ambienta in fretta. Anzi l’insularità finisce con lo sposarsi perfettamente con il suo carattere scontroso. Che dopo aver portato il Cagliari in A, con la raggiunta popolarità, però comincia a schiudersi. Riva diventa un simbolo, quasi politico, di riscatto per l’intera Sardegna. Il paladino di una terra che si sente ingiustamente trascurata. E di famiglie pronte ad accoglierlo ne incontra tante. Dalle blasonate che cercano di cooptarlo ma che lui schiva a quelle più umili dei pastori e dei pescatori in cui si inserisce docilmente.
E’ lui l’artefice principale di un traguardo storico. Lo scudetto del Cagliari nel 1970: il primo (e unico) per la Sardegna e anche il primo in assoluto per il Sud Italia (prima dei tre conquistati dal Napoli). All’Amsicora, il vecchio stadio di Cagliari, nell’anno dello scudetto segna gol a raffica (21). Ricordava che la sua bussola erano i cartelloni pubblicitari dietro le porte. Una sorta di radar che gli coordinava i movimenti per fargli scagliare violentemente i palloni in rete.
La sua fama attira le attenzioni dei grandi club del Nord. L’avvocato Agnelli si spinge ad offrire un miliardo di lire per portarlo alla Juve. Il presidente dell’Inter Moratti, che conosceva il suo debole di gioventù per i colori nerazzurri, gli regala ogni Natale una sterlina d’oro nella speranza di sedurlo. Ma lui resiste a ogni tentazione. Ormai è la Sardegna la sua terra. Dove intreccia amori da cui nascono due figli. E’ una scelta definitiva di vita. Da calciatore al Cagliari rimane altri sei anni. E nel frattempo si impone naturalmente anche in Nazionale, nonostante un gravissimo infortunio (il 31 ottobre del ’70 il difensore austriaco Hot gli ruppe una gamba a Vienna) che poteva costargli la carriera.
Si ritira nel ’76 a soli 32 anni dopo un altro infortunio a San Siro contro il Milan. La sua storia eccezionale è racchiusa nei numeri delle statistiche: 14 campionati da giocatore nel Cagliari (più una da presidente), 164 gol, tre volte capocannoniere e uno scudetto. E in Nazionale 42 presenze, 35 reti (capocannoniere assoluto), un campionato europeo vinto nel ’68, un secondo posto nei mondiali in Messico (suo uno dei gol in Itala-Germania 4-3), 13 anni come team manager. E poi il resto della vita nella sua Cagliari. Sempre schivo, ma meno ombroso. Più prodigo di consigli.
Un uomo integerrimo. Senza vizi, escluso il fumo. Ricordava Scopigno, l’allenatore filosofo del Cagliari scudettato, che alla vigilia di un incontro in trasferta importante lo scovò impegnato durante le ore piccole in una mano di poker con altri tre compagni avvolti in una nuvola di fumo. Il trainer, che aveva il senso dell’ironia e usava più la carota del bastone, evitò scenate. “MI è venuta voglia di fumare”, disse, “Vi è rimasta qualche sigaretta?”