Aprile 1988. Quaranta anni – secondo il calendario ebraico – dalla fondazione d’Israele. Ero a Gerusalemme seduto di fronte a Haim Herzog, presidente dello stato e padre dell’attuale presidente. Parlai a lungo e ascoltai con grande interesse e stima quell’uomo che rappresentava molto della storia dello sionismo e della storia del suo giovane paese. Guerra e pace erano i temi di una vita. Proprio il giorno prima era stato assassinio a Tunisi, Abu Jihad uno dei leader più importanti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina: un commando dei servizi segreti di Tel Aviv aveva colpito nella notte come oggi il Mossad giura che prima o poi saranno uccisi tutti i leader di Hamas colpevoli di atti che i militanti dell’Olp non si erano mai immaginati come strumenti di lotta per la liberazione della Palestina.
Herzog accennò prima ai suoi ricordi. Dall’Irlanda dove era nato all’emigrazione in Terra Santa quando suo padre fu nominato rabbino capo della Palestina, alla guerra contro gli arabi; a quando dirigeva i servizi segreti militari. Laburista delle prime ore era stato eletto presidente per la prima volta nel 1983 e riconfermato all’incarico poche settimane prima del nostro incontro.
Rileggendo le sue parole mi chiedo come risponderebbe oggi alle mie domande. Non credo che pensasse mai alla possibilità di trovare il paese del suo sogno e il popolo ebraico di Israele in una situazione così drammatica.
“Abbiamo creato uno Stato libero e democratico. Uno stato di diritto, con elezioni libere e democratiche. Siamo uno dei trenta o quaranta paesi di tutto il mondo che hanno questo sistema. Abbiamo l’educazione obbligatoria. Sullo sfondo del mondo arabo e di tutti i problemi che abbiamo avuto, che abbiamo oggi, siamo riusciti a conservare un volto umano e abbiamo concesso una libertà superiore all’immaginabile agli arabi d’Israele che costituiscono, oggi, una delle massime forze politiche del paese. Credo che possiamo essere orgogliosi di questo…”.
Erano, quelli di allora, anni difficili e molto incerti. Yasser Arafat era in vita. C’erano poche decine di migliaia di coloni nei territori occupati che comprendevano Gaza. Pochi mesi prima, a sorpresa, era scoppiata la prima Intifada proprio nella striscia : nel campo profughi di Jebalya ormai ridotto, dopo gli ultimi bombardamenti una landa desolata di macerie, vuoto dei suoi abitanti, uccisi o spinti dalle forze israeliane verso le zone meridionali di quella terra che si affaccia sul Mediterraneo.
Allorra una possibile stretta di mano tra il leader palestinese e Rabin e Peres era quasi impossibile da immaginare anche se Herzog guardava il futuro con speranza. “Intendiamoci, non sono disposto a compromessi sul carattere ebraico dello Stato”, mi disse chiarendo quale fosse per lui un punto su cui mai negoziare.
E poi volle chiarire: “Con gli arabi d’Israele il pericolo demografico è inesistente. Se ci riferiamo ai territori amministrati il pericolo potrebbe derivare solo da una soluzione politica – eventuale annessione – che non è stata accettata dal publico in Israele e potrebbe non essere mai accettata. Ne da noi, ne dagli altri”.
Il mondo cambia. Anche le maggioranze quando si vota cambiano nei paesi democratici. La sinistra stava perdendo consensi. La destra avanzava e gli estremisti religiosi si affacciavano sulla scena politica. Chiesi al presidente Herzog: “Non ha avuto qualche dubbio, in questi quarant’anni, sulle capacita d’Israele di mantenere il suo carattere democratico?”.
“Di tanto in tanto. La mia preoccupazione ha riguardato certi fenomeni periferici, minori, del tutto contrari alla essenza stessa dell’ebraismo, al nostro sistema democratico, alla nostra dichiarazione d’indipendenza. Mi riferisco all’apparizione di gruppi razzisti, sia ebrei che arabi. E’ un aspetto della nostra società che mi preoccupa, anche se è vero che il fenomeno e, purtroppo, comune a tutte le democrazie. Ma il razzismo va contro la nostra religione, contro la nostra storia e non possiamo essere tolleranti nei suoi confronti”.
Il figlio di Haim Herzog dorme nel letto che fu di suo padre. Per la maggioranza degli israeliani non ha il carisma del genitore ma, ammettono quasi tutti, gli israeliani di una volta erano un’altra cosa. Israele era un’altra cosa. Il sogno sionista era un’altra cosa. E aggiungono, come tutti noi, il mondo era un’altra cosa. E domani? Il giovane Herzog ne ha scritto sul New York Times.
“Per noi e per i palestinesi, le sofferenze finiranno solo con la rimozione di Hamas. Chiunque cerchi di legarci le mani, intenzionalmente o meno, sta minando non solo la difesa di Israele ma anche ogni speranza per un mondo in cui queste atrocità non possano verificarsi”. Il periodo precedente alla brutale incursione di Hamas, ha specificato, è stato segnato dalla “emergere di un Medio Oriente migliore”. Si riferiva ai legami che Israele ha stretto con gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco nell’ambito degli Accordi di Abraham, e ai progressi verso la normalizzazione con Arabia Saudita. O si chiede se “Sarà questo il mondo che uscirà da questa crisi? O sarà il mondo desiderato dai fondamentalisti assassini di Hamas?”
“Molto è in gioco in questo momento, non solo il futuro di Israele. Il 7 ottobre ci siamo svegliati tutti di soprassalto e ci siamo trovati di fronte ad una sfida scioccante alle nostre speranze e alla nostra morale. Il modo in cui affronteremo questa sfida – ha scritto il presidente – plasmerà il nostro futuro”.
Ieri Isaac Herzog si è rivolto al World Economic Forum di Davos e ha detto che Israele vuole un “futuro in cui possiamo vivere insieme, Gaza può essere ben gestita […] Hamas è fuori questione”. Ha aggiunto: “Dobbiamo negoziare con coloro che potrebbero essere un potenziale partner”. Se “quando le nazioni dicono soluzione a due stati,… possiamo garantire la sicurezza per noi stessi e per la nostra gente”.