Barba folta, corpulento, pancia pronunciata, sguardo cattivo, gestualità imperiosa. È il ritratto del 45enne José Adolfo Macias detto Fito, il capo dei Choneros (una agguerritissima gang mafiosa con un esercito di 8 mila uomini): il criminale che con la sua evasione dal carcere di Guayaquil ha precipitato l’Ecuador in una guerra asimmetrica fra Stato e narcotraffico.
A fronteggiarlo c’è Daniel Noboa, il più giovane presidente eletto del pianeta (ha solo 36 anni), in carica da solo due mesi, che dopo l’assalto armato delle bande che ha messo a soqquadro il paese ha proclamato prima lo stato di emergenza e poi quello di guerra impegnando l’esercito e difesa delle istituzioni e della tenuta democratica del paese.
E’ la prima volta che i cartelli della droga sudamericani, avvezzi a infiltrare politici collusi e corrotti ai vertici governativi a salvaguardia dei propri interessi, sfidano direttamente uno Stato per gestire in proprio le leve del comando. “Hai voluto la guerra”, è il grido di battaglia urlato in tv dai rivoltosi, “e guerra avrai”.
L’Ecuador (18 milioni di abitanti) assiste sconvolto e atterrito all’eruzione spaventosa di violenza. Un sabba di sangue a cui partecipano, con alleanze trasversali e contatti internazionali, tutti e 22 i gruppi della grande criminalità locale con interessi e contrasti interni a loro volta inconciliabili. Un conflitto che ha costretto i governi di Colombia e Perù a pattugliare le frontiere e gli Stati Uniti a offrire assistenza al governo di Quito.
Il centro della televisione di Stato occupato a Guayaquil. E un po’ ovunque uccisioni con teste mozzate e corpi squarciati. Università, scuole, ospedali, uffici governativi sotto assedio. Con la popolazione civile perlopiù barricata in casa di giorno e bloccata per legge dal coprifuoco nelle ore notturne. Una sospensione delle libertà impensabile fino a due anni fa in un paese che era considerato un’oasi nelle convulsioni del continente sudamericano.

Lo spartiacque che ha cacciato l’Ecuador nell’incubo risale al 23 febbraio 2021 quando nel penitenziario Litoral di Guayaquil, dove erano rinchiusi i capi delle principali bande, vennero in collisione gli uomini dei Colchones con quelli dei Lobos (la seconda gang del paese per numero di aderenti e pericolosità). Da una banale rissa scaturì una carneficina con 75 morti.
Era il segnale di uno spostamento geografico dei flussi nel traffico della droga. Le centrali di smistamento messicane, stufe di pagare pedaggi di transito ai grandi cartelli produttori della Colombia e del Perù, decisero di battere altri canali meno esosi per far arrivare senza troppi intralci le forniture in Europa. Abbandonarono le rotte dei Caraibi e dell’Atlantico scegliendo come alternativa il Pacifico. E scelsero come nuovo hub Guayaquil (tre milioni di abitanti), il più grande porto dell’Ecuador e anche meta turistica di passaggio per i croceristi diretti alle Galapagos. Trasformando la città in una centrale della malavita, con tutte e 22 le gang (un tempo dedite a rapine, estorsioni, gestione del gioco clandestino e della prostituzione) impegnate nel narcotraffico. Ed eterodirette dai cartelli esterni: Sinaloa alleati coi Colchones, Jalisco Nueva Generacion con i Lobos. Massiccia pure la presenza della mafia albanese che assicura gli approdi delle droghe nei terminali europei. Con l’afflusso concomitante del fior fiore della criminalità Guayaquil è diventata in pochi mesi la città più violenta del pianeta.
Le gangs già la scorsa estate tentarono di condizionare l’elezione presidenziale uccidendo ferocemente dopo un comizio il candidato di sinistra Fernando Villavicencio che aveva dichiarato guerra ai cartelli. Un’esecuzione ordinata dai Colchones o dai Lobos (non si è ancora capito bene). L’impegno a fare pulizia è stato subito raccolto dal candidato di destra Noboa (in realtà un liberale di sinistra, con studi di economia ad Harvard, figlio della più importante famiglia di imprenditori del settore bananifero). Che con il piano Phoenix mirava a dividere nelle carceri i delinquenti comuni dai capi del narcotraffico che sarebbero stati rinchiusi in penitenziari di massima sicurezza.
La scintilla della guerra è scattata appunto per il minacciato trasferimento di Fito (condannato a 34 anni di galera) dalla prigione vicino a Guayaquil. Dove con la complicità degli agenti faceva una vita da nababbo. Fito aveva già provato all’inizio della detenzione le privazioni del carcere duro. Ma dopo aver assunto la leadership dei Colchones, in seguito all’assassinio del capo storico Jorge Luis Zambrano, era riuscito grazie all’intervento di magistrati al suo servizio a farsi trasferire in una prigione molto più morbida. Dove il cortile era decorato con murales in suo onore. E dove dava festini con tanto di fuochi d’artificio. Registrando addirittura un narcocorrido (genere di musica popolare che esalta gli eroi del narcotraffico). Con un brano dedicato a lui (titolo “El corrido del Leon”), interpretato con la collaborazione dei mariachis dalla figlia cantante ma anche laureata in legge che si presenta nello show business con il nome d’arte di “regina Michelle”.
Fito stesso in carcere è riuscito a laurearsi in legge, mettendosi alle spalle il passato giovanile di tassista e in seguito di manovale della malavita. E accreditandosi, a dispetto del look truce, come una versione sudamericana di Robin Hood, sensibile ai tormenti delle classi più disagiate. E’ un leader a più dimensioni: astuto e spietato ovviamente ma dotato anche di carisma e di spessore intellettuale. E con grandi mezzi per tessere la tela della corruzione. Distribuendo soldi e regalie a destra e a manca non gli è stato difficile evadere (impresa che gli era già riuscita nel 2013, rimanendo per molti mesi alla macchia). A indurlo alla fuga è stata anche la crescita esponenziale dei rivali Lobos, che alleandosi a altri sette gruppi, gli stavano sfilando l’egemonia nel controllo del narcotraffico. Per tutta risposta, quasi simultaneamente, è evaso da un altro carcere anche Fabricio Colon Pico, capo dei Lobos, perché la posta in palio era troppo grande per lasciare via libera al rivale. Scagliando l’Ecuador all’inferno.