Questa è una storia che non sembra arrivare da un moderno paese occidentale, ma da un Medioevo cupo e rovinoso. Invece siamo in Texas, dove adesso l’aborto è vietato salvo in caso di pericolo per la vita della madre. O meglio: è vietato da quando è possibile sentire il battito cardiaco del feto, intorno alle sei settimane – prima delle quali in genere neanche ci si accorge di essere incinta.
In Texas, dove Kate Cox, 31 anni, residente di Dallas-Fort Worth, è alla ventesima settimana. Di bambini già ne ha due; ha scoperto che il terzo che ha in grembo è portatore di trisomia 21, malattia genetica che determina gravi malformazioni organo-scheletriche. Il 50% dei neonati muore entro la prima settimana dal parto, solo il 10% raggiunge un anno di età, i sopravvissuti sono gravemente disabili. Il bimbo di Kate Cox ha malformazioni cardiache, la spina dorsale distorta, non solo morirà in fretta ma fra dolori terribili.
Il 5 dicembre, la giovane donna ha fatto causa allo Stato per ottenere il diritto di abortire in emergenza: è la strada obbligatoria (di certo non la più agevole per una donna che è già nel mezzo di una tragedia personale). La corte le ha dato ragione e le ha accordato 14 giorni di esenzione dalla legge.
Ma venerdì l’Attorney General Ken Paxton in tutta fretta si è rivolto alla Corte Suprema chiedendo di bloccare la decisione. Sabato mattina la notizia: la Corte Suprema ha accolto la richiesta di Paxton, per ora in via “amministrativa”, ovvero senza giudicare nel merito. Quando deciderà? Non si sa: l’Alta Corte nella sentenza afferma che il caso resta aperto ma non dà una scadenza.
Le gravidanze, invece, una scadenza ce l’hanno. L’avvocata di Cox, Molly Duane – legale del Center for Reproductive Rights, si è detta speranzosa: “Parliamo di cure mediche urgenti. È per questo che non è possibile ridursi a supplicare in un’aula di giustizia”.
Ma quella che si scatena sul corpo di Kate Cox e del suo sventurato bambino è una battaglia politica. Il Texas è uno dei 14 Stati dell’Unione che hanno applicato una messa al bando pressoché totale dell’aborto da quando nel 2022 la Corte Suprema di Washington – dove l’amministrazione Trump nominò tre giudici conservatori – ha decretato la fine della protezione federale sull’aborto; da allora ogni Stato decide per proprio conto.
Nell’ultimo mese, Kate Cox – dicono i documenti presentati dalla sua legale – è stata tre volte al pronto soccorso per forti crampi e perdite di liquido non identificato. I suoi due bambini precedenti sono nati con parto cesareo, ha quindi un utero già fragile, e “continuare la gravidanza la pone ad alto rischio di gravi complicazioni che minacciano la sua vita e la sua fertilità futura” fra cui lacerazioni uterine e pericolo di una isterectomia”. E lei di figli ne vorrebbe altri.
L’Attorney General oltre a rivolgersi alla Corte Suprema e a minacciare causa contro chiunque aiuti Kate Cox, aveva scritto intanto ai tre ospedali di Houston dove opera il medico della donna, per bloccare ogni via d’uscita. Secondo Ken Paxton, la giovane non ha dimostrato di avere un problema “potenzialmente letale” o sintomi che la mettano “a rischio di morte” o di gravi danni fisici. Di qui l’avvertimento agli ospedali: la sentenza del giudice distrettuale “non vi protegge dalla responsabilità civile e penale”, inclusi reati di primo grado e 100.000 dollari per ogni violazione amministrativa.
Come si può definire chi usa a scopi meramente politici una tragedia personale? Quando Margaret Atwood scrisse Il racconto dell’ancella, il suo orribile Gilead – dove il corpo delle donne era ridotto alla schiavitù procreativa – sembrò a molti un luogo distopico. Ma da qualche parte del mondo esiste sempre un Gilead, anzi più di uno, che toglie tutele civili alle donne. Che non sia a Kabul, ma a Dallas, è una verità amarissima.