Almeno tre giorni a settimana: Amazon ha fatto sapere che gli impiegati amministrativi che non si presenteranno in ufficio potrebbero anche rischiare il licenziamento. Lo scorso febbraio l’azienda aveva comunicato ai dipendenti che, a partire da maggio, avrebbero dovuto andare fisicamente in azienda appunto tre giorni alla settimana: secondo il Ceo Jeff Bezos, il team che guida Amazon pensa che il lavoro in presenza rafforzi la collaborazione e la cultura della compagnia. Ora – di fronte alle resistenze degli impiegati – arriva la minaccia di bloccare le promozioni per chi non accetta, e presto potrebbero arrivare anche i licenziamenti.
L’azienda di Jeff Bezos – la più importante piattaforma di consegne a domicilio al mondo, che di fatto permette a milioni di persone di uscire di casa il meno possibile – è solo l’ultima negli Stati Uniti, e anche in Italia, a chiedere il rientro in sede almeno parziale dei suoi dipendenti. Tre giorni a settimana in presenza sono richiesti anche agli impiegati di Apple e a quelli di Google, quattro a quelli della Disney, perché secondo il Ceo Bob Iger, “nulla sostituisce il contatto dal vivo”; addirittura cinque giorni a settimana alla Goldman Sachs; in tutti i casi, i lavoratori hanno protestato con veemenza.
La pandemia da Covid-19 sembrava aver cambiato per sempre le nostre abitudini e la struttura stessa dell’economia. In lockdown, per molti mesi abbiamo imparato tutti a lavorare da casa, spesso in condizioni di fortuna e con mezzi precari. Qualcosa di quella rivoluzione è rimasto e probabilmente rimarrà per sempre, aiutato dagli sviluppi tecnologici che consentono lo scambio di materiali a distanza, e dalla diffusione dei software per le riunioni virtuali come Zoom, Bluejeans, Teams.
Ma a chi conviene? I dati sono controversi. È chiaro che chi agisce fisicamente con le merci (magazzinieri, operai), chi vende al dettaglio, chi deve avere un rapporto con una comunità dalle esigenze specifiche – come le classi di studenti o i pazienti di un medico – non può lavorare in remoto se non in condizioni particolari. Dal punto di vista del riflesso sull’economia, il lavoro da casa obbliga a una mutazione del tessuto sociale; per esempio, lo spostamento di fornitori di beni e servizi di prossimità, soprattutto di locali e negozi concentrati nei centri cittadini, molti dei quali in pandemia hanno rischiato la chiusura o si sono riciclati nelle consegne a domicilio.

Il punto chiave per le aziende però è la produttività, e su questa si imperniano i molti studi sulla questione. Ce ne è per tutti i gusti. Uno studio del Becker Friedman Institute di Chicago del 2021 riscontrava un crollo della produttività col lavoro remoto fra l’8 e il 19%; uno studio cinese del 2013 parla di un aumento del 13%, mentre uno studio dell’economista Anthony M. Diercks, uscito nel settembre 2023, che collaziona una serie di altre analisi, conclude che l’aumento della produttività potrebbe arrivare al 24%. Diercks raccomanda peraltro incontri periodici dei lavoratori per 4/5 giorni ogni sei settimane.
Mentre la maggioranza degli impiegati non è contraria a tornare ogni tanto in presenza e riprendere contatto coi colleghi, moltissimi gradiscono la flessibilità che garantisce il lavoro da casa – o il lavoro da qualunque luogo ci si trovi, fuori dall’ufficio. Secondo lo sudio di Diercks, è vero per tutti, non solo per le donne con figli o famiglia, che da remoto riescono a conciliare le attività domestiche – in gran parte sulle loro spalle – e il lavoro retribuito.
Una soluzione ibrida è quella che la maggioranza delle aziende ha contrattato o sta contrattando.
Intervistato dal New York Times, Nick Bloom, economista a Stanford che ha molto studiato il lavoro in remoto, afferma che la produttività cambia a seconda dell’approccio del datore di lavoro: quanto è in grado di dare supporto agli impiegati che non sono in ufficio, e se gli impiegati hanno l’opportunità di incontrarsi almeno ogni tanto faccia a faccia.