“Quando due ebrei discutono, hanno almeno tre opinioni diverse”, recita una vecchia e amara battuta ebraica. In questo momento tragico per la comunità ebraica americana, quella ironica autocritica non potrebbe essere più vera.
A dimostrarlo è bastato il raduno che ha visto martedì circa duecentomila persone sfilare per le strade di Washington in un’accorata manifestazione in difesa di Israele, che ha unito un appello per la liberazione degli ostaggi all’impegno per lottare insieme contro l’antisemitismo. Tra le bandiere bianche e blu con la stella di David e le foto degli ostaggi sbandierati dai manifestanti, i segnali di alcune profonde divisioni non sono però certo sfuggiti agli osservatori. Tra chi si opponeva a gran voce a ogni prospettiva di un cessate il fuoco tra le forze armate dell’IDF e Hamas e chi, a quelle urla, opponeva una visione dei bambini di Gaza vittime innocenti di una guerra violenta, la distanza era certamente profonda.
A unire tutti gli ebrei americani, certamente, c’è un profondo attaccamento a Israele, il piccolo stato che per la prima volta dopo duemila anni li ha fatti tornare in quella terra da cui provengono, non più come una minoranza esule e soggetta agli umori o alle violenze di un sovrano o di un dittatore, ma come un popolo in grado di fare le proprie scelte e prendere le proprie decisioni. Quando, durante le manifestazioni a favore dei palestinesi, a cui tra l’altro hanno talvolta partecipato, sentono chiedere da molti un nuovo stato palestinese che vada ‘dal fiume al mare’, la reazione di paura è comune per tutti.
E altrettanto comune è la preoccupazione per l’aumento incontrollato dell’antisemitismo nel paese che considerano la loro casa e dove, dagli anni di John Kennedy, ogni forma di discriminazione nei loro confronti sembrava scomparsa. Nelle due settimane dopo il massacro di Hamas, come ha denunciato Deborah Liptsadt, l’inviata di Joe Biden per la lotta contro l’antisemitismo, gli incidenti sono invece saliti del 400 per cento, dopo che già erano saliti da 751 nel 2013 a 3697 nel 2022. A rendere ancora più acuta la preoccupazione comune vi sono soprattutto le manifestazioni e gli attacchi nell’ambito dei college e delle università, un ambiente che in passato ha sempre ospitato con rispetto una folta rappresentanza ebraica.

Al di là di questo, però, l’accordo di spacca. Già durante lo scorso anno, le fratture erano apparse evidenti, con molti ebrei americani apertamente schierati con i manifestanti israeliani contro le scelte politiche del governo di Netanyahu, altri disciplinatamente a favore.
Adesso, di fronte alla violenta invasione di Gaza, ai dubbi dell’opinione pubblica mondiale di fronte alle scelte politiche e militari di Netanyahu e alla tremenda sofferenza della popolazione di Gaza, il solco si è allargato. Per accorgersene, basta confrontare i mille eventi che tutte le sinagoghe e i centri ebraici organizzano nelle ultime settimane, chi per proporre un dialogo su una pace giusta e durevole con l’intervento di qualche intellettuale palestinese, chi per chiedere la liberazione degli ostaggi con una aperta critica delle mosse del governo israeliano al riguardo, chi soltanto per ricordare le vittime del massacro di Hamas e per rivendicare il diritto dello stato ebraico di difendersi ad ogni costo.
Perfino nei confronti della Casa Bianca la reazione è diversa, e anche se tutti sono grati al presidente Biden per l’amicizia e il supporto che ha offerto a Israele, una parte degli ebrei americani non sembra disposta ad ascoltare i suoi inviti alla moderazione, apparentemente incurante di alienarsi l’opinione pubblica e indebolire il presidente nella sua ricerca di una soluzione durevole a lungo termine.

Quello che succede oggi nel mondo ebraico americano, d’altra parte, ha origini lontane. Nel corso degli anni, negli Stati Uniti sono arrivate molte comunità di ebrei molto diversi tra di loro. I primi, si sa, sono arrivati addirittura dal Sudamerica e dall’Olanda nel lontano 1600. La prima vera immigrazione consistente è sbarcata negli Stati Uniti proveniente dalla Germania a metà del 1800 e, malgrado le molte discriminazioni, si è presto integrata nel mondo dei commerci e della finanza e ha creato molte istituzioni e club sul modello di quelli anglosassoni che ancora oggi sopravvivono.
A seguirla, alla fine del secolo e all’inizio del ‘900, l’ondata dei russi alienati e poverissimi in fuga dai pogroms, che hanno fatto fatica per molti decenni per trovare un loro spazio, e degli ultraortodossi che ancora oggi vivono in comunità isolate e sono culturalmente e politicamente vicini all’ala più estremista del governo israeliano. Sul suolo americano, diversi decenni dopo, sono arrivate le vittime dell’Olocausto e i tanti intellettuali europei in fuga dal nazismo, oggi in gran parte scomparsi, ma i cui discendenti sono sicuramente schierati a difesa di un mondo più giusto per tutti.
Per ultimi, infine, sono arrivati i russi emarginati dal regime comunista. Tra i vari gruppi tanto diversi culturalmente e socialmente, il dialogo non è mai mancato, ma non sempre è stato facile al di là di una fede comune. E ora, di fronte a una situazione drammatica e complessa, la reazione del mondo ebraico americano tanto differenziato non poteva che essere che quella di una vecchia battuta ironica.”