La notizia arriva con il linguaggio algido della burocrazia cinese: il ministro degli Esteri Qin Gang è stato sollevato dal suo incarico e sostituito dal predecessore Wang Yi.
Una mossa decisamente inaspettata, ma che forse dà senso alla misteriosa scomparsa di Qin dalle scene pubbliche da almeno un mese. L’ultima apparizione mediatica del diplomatico 57enne – fedelissimo del presidente Xi Jinping ed ex ambasciatore a Washington – risale infatti allo scorso 25 giugno, in occasione di un incontro a Pechino con alti funzionari dello Sri Lanka, del Vietnam e della Russia.
Secondo i media statali, la decisione di rimuovere Qin dopo meno di 7 mesi dalla nomina (avvenuta a fine dicembre) è stata votata martedì dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo. Consesso che, peraltro, si riunisce tipicamente alla fine del mese – ma che evidentemente in questo caso ha ritenuto opportuno fare un’eccezione. La rimozione è stata infine messa nero su bianco da un ordine presidenziale di Xi, come riferito dall’agenzia di stampa Xinhua.
Nella prima metà di luglio Qin era stato costretto a rimandare un incontro con il capo della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell. Qualche giorno dopo, aveva disertato un altro vertice diplomatico in Indonesia. Il ministero degli Esteri aveva cercato di giustificare l’assenza di Qin adducendo generici “motivi di salute”. La mancanza di informazioni dettagliate ha però inevitabilmente alimentato un vortice di speculazioni, spingendo molti a supporre che l’alto diplomatico potesse essere stato punito per motivi politici o per una chiacchierata relazione extraconiugale con una nota presentatrice televisiva.

Ambasciatore a Washington dal luglio 2021 al gennaio 2023, Qin si è guadagnato in pochi mesi la reputazione di falco di politica estera nonché di esponente a pieno titolo della wolf warrior diplomacy – termine mutuato dal cinema che indica quella schiera di feluche cinesi che hanno deciso di rompere con il loro tradizionale basso profilo sposando invece una più decisa assertività tendente alla sciovinismo ‘urlato’.
In precedenza, aveva ricoperto rispettivamente il ruolo di portavoce e addetto al protocollo del ministero del ministero degli Esteri, posizioni che gli avevano consentito di pianificare le missioni internazionali di Xi e di stringere un solido rapporto proprio con il lider maximo cinese. Verosimilmente proprio in virtù di tale rapporto lo scorso dicembre era stato scelto come uno dei più giovani ministro degli Esteri nella storia della Cina popolare. Prima, ça va sans dire, della clamorosa inversione a U decisa nelle stanze dei bottoni di Zhongnanhai.
Beninteso, non è certo la prima volta che alti funzionari cinesi scompaiono per lunghi periodi di tempo: il più delle volte essi infatti riappaiono mesi dopo – ma quasi sempre con procedimenti penali a carico.

A prendere il posto di Qin sarà il 69enne Wang Yi, che ha già ricoperto la carica di ministro degli Esteri dal 2013 al 2022, e che da dicembre è il capo della diplomazia del Partito comunista cinese. Di fatto, comunque, da un paio di mesi a questa parte è rimasto lui il massimo responsabile della politica estera di Pechino, supplendo alla mancanza di Qin.
Lo dimostra la circostanza che sia stato proprio Wang l’interlocutore dei tanti funzionari statunitensi succedutisi a Pechino negli ultimi due mesi (in ordine: il segretario di Stato Antony Blinken, la segretaria al Tesoro Janet Yellen, e l’inviato speciale per il clima John Kerry – oltre al decano dei diplomatici USA Henry Kissinger).
Non è ancora chiaro se e quanto l’uscita di scena di Qin influirà sulle relazioni tra le due maggiori economie del mondo, che nelle ultime settimane hanno ripreso timidamente a dialogare nonostante i dissidi su Mar Cinese Meridionale, futuro di Taiwan, commercio, diritti umani e guerra in Ucraina.
Ma opaco rimane anche il futuro politico di Qin, che potrebbe a questo punto perdere anche la carica di consigliere di Stato nell’esecutivo di Pechino.