Non c’è bisogno di scomodare i tre grandi per rendere omaggio a Carlos Alcaraz. È riduttivo e sbagliato pensare che per essere considerati di valore si debba somigliare per forza a Djokovic, Federer o Nadal.
Prima di tutto perché nessuno di loro, a vent’anni appena compiuti, era mai riuscito a vincere Wimbledon. Nemmeno Federer, che ha dovuto aspettare di averne (quasi) 22. E poi perché nel gioco dello spagnolo classe 2003 c’è un altro modo di interpretare il tennis, più moderno ed evoluto rispetto alla generazione dei fenomeni nati negli anni ’80.
Carlos è innanzitutto potenza. Non si potrebbero definire in altro modo le accelerazioni che, sopratutto di dritto, hanno lasciato fermo Novak Djokovic, battuto nella finale dello Slam inglese sotto gli occhi dei principi William e Kate. É potenza di colpi e di gambe, che frullano veloci permettendogli quei piccoli aggiustamenti indispensabili sugli scivolosi campi in erba.
“Mi sono innamorato della superficie”, ha detto con il trofeo in mano: Wimbledon è stato soltanto il quinto torneo della sua carriera giocato sui prati.

Eppure l’attitudine all’attacco, difficilissima da trovare in casa spagnola (nell’ultimo ventennio ad avere una particolare predilezione per il net si ricorda solo Feliciano Lopez), a Carlos non manca. Il gioco a rete è da perfezionare, ma è l’iniziativa ciò che conta: la fantasia di attaccare sia con la palla corta, che con uno slice incredibilmente efficace soprattutto sulla diagonale destra. Più di una volta, nel corso del torneo, Alcaraz si è addirittura preso il lusso di emulare il “fake shot” reso famoso dalla racchetta di Federer, il chop di dritto tirato dopo aver finto una smorzata. A fine partita il primo ad applaudirlo è stato proprio Djokovic, che dopo aver messo in cassaforte il record di Slam con la vittoria al Roland Garros (23) ha visto sfumare il sogno del Grande Slam, i quattro Major vinti di un anno, riuscito solo a Rod Laver nel 1969.
Forse, sul 3-0 del tiebreak nel secondo set dopo aver vinto il primo 6-1, il serbo pensava di avere già in tasca l’ennesimo titolo sui campi inglesi. Sarebbe stato l’ottavo, per lui: un numero che gli avrebbe permesso di raggiungere Federer. Invece un drop shot sfortunato e una risposta incredibile di Alcaraz a fine secondo parziale gli hanno fatto gelare il sangue, portandolo a una dolorosa sconfitta.
Al party di Wimbledon, Alcaraz si è presentato con il trofeo in mano, un elegante Daytona al polso e un consolidato primo posto nel ranking mondiale. Posizione con cui da Londra partirà in viaggio verso gli Stati Uniti, che ospiteranno la stagione sul cemento. Da qui agli US Open, dove lo spagnolo dovrà difendere il titolo dello scorso anno, ci saranno i due Master 1000 del Nord America. A New York il suo percorso lo hanno seguito tutti. Sulla collinetta di Brooklyn chiamata “The Hill”, si sono riuniti a migliaia nelle due settimane di torneo per seguire le partite dello spagnolo che a Flushing Meadows sarà il favorito.
Il suo gioco, esplosivo e vario, funzionerà benissimo anche nei campi in cemento del Queens, dove l’anno scorso Carlos ha beneficiato di un tabellone libero dai top player.
Stavolta a sfidarlo sarà ancora Djokovic (nel 2022 assente perché senza green pass), ma anche Medvedev, che a New York ha vinto nel 2021. Ci sarà poi, per la prima volta, la pressione delle aspettative. L’Artur Ashe, il campo centrale del torneo, con i suoi 23.771 posti a sedere è lo stadio di tennis più grande al mondo. Spettatori che, senza Federer e Nadal e con un Djokovic mai amato del tutto dei fan, saranno lì per lui. Carlos ora ha un posto in prima fila tra i grandi del circuito: tenerlo stretto sarà l’impresa più difficile.