C’è chi ha paura, chi si esalta, e chi è pragmatico di fronte ai balzi in avanti dell’intelligenza artificiale (resi evidenti, per esempio, da Chat GPT). Perderemo posti di lavoro o ne conquisteremo di nuovi? Dovremo preoccuparci delle manipolazioni che i regimi tirannici potranno mettere in campo? Urgono delle regole, per evitare comportamenti che manipolano l’essere umano? L’Unione Europea, che già nel 2016 aveva adottato il GDPR (General Data Protection Regulation, quello che ci obbliga continuamente ad approvare dichiarazioni sulla privacy), ora ha scritto l’UE AI Act, che entrerà in vigore nel 2024. Gli Stati Uniti per ora sono molto più permissivi. Ma partiamo dal concreto: come evolve il mercato dell’occupazione, soprattutto quello del lavoro intellettuale. “Ci sono lavori che andranno rimodulati, certo, per esempio in tema di traduzione” ragiona Guido Vetere, già direttore del centro studi IBM Italia, oggi docente universitario e fondatore della società di intelligenza artificiale Isagog. “Ma questo nella storia dell’umanità è sempre avvenuto, e non necessariamente significa disoccupazione. Molto dipende dagli investimenti che si faranno nella formazione, ancora di più da come si riuscirà a ridistribuire la ricchezza che si produce per effetto dell’automazione. Una grande industria risparmia utilizzando un robot invece che forza lavoro umana; se il valore così prodotto venisse reinvestito nella società, l’essere umano potrebbe attestarsi su lavori ad alto valore aggiunto: per dire, non più tradurre le istruzioni della lavastoviglie, ma solo Proust e Kerouac”.
Lo stesso è vero per il giornalismo? “Certo; meno pezzi banali e copiaincollati, e più indagini e approfondimenti. Potrebbe nascere un bollino del ‘pensiero critico’, una sorta di certificato… attestato da un’autorità – come il cibo bio – oppure offerto direttamente dai produttori”. Allora il lettore dovrebbe fidarsi dei giornali, accettare che l’articolo ‘col bollino’ valga la pena di essere comprato… “Il punto è che bisogna sviluppare nel pubblico una sensibilità e una cultura digitale, per dire che le macchine producono linguaggio in modo molto lontano da come funziona la mente umana. Possono fare di più sul piano quantitativo, ma non su quello qualitativo, ovvero della creazione di significato. È catastrofico e tendenzioso annunciare che ‘fra tot anni le macchine tradurranno meglio degli umani’. Un testo elaborato da un soggetto umano ha più valore, la mente umana è un plus, e questo può diventare un modo per veicolare il prodotto”.
Speriamo. Intanto però ci sono rischi inerenti alla manipolazione dei contenuti – quelli che vorrebbe evitare l’EU IA Act. E poi, non rischiamo che invece di redistribuire la ricchezza si allarghi il gap fra i pochi sempre più ricchi e i molti sempre più poveri? “È vero che l’intelligenza artificiale rischia di fare da acceleratore di alcuni processi già in atto: le multinazionali da decenni hanno accumulato così tanto da diventare soggetti geopolitici. L’approccio regolatorio dell’Ue può frenare queste dinamiche, ma io credo che non basterà; tutte le mordacchie possono essere eluse e rischiano di colpire, più che i monopolisti, i piccoli e medi imprenditori che innovano” conclude Vetere. “Queste sono tecnologie inerentemente accentratrici, perché richiedono grandi capacità computazionali, oggi in possesso solo di imprese private. Facciamo in modo che in futuro siano fornite da istituzioni pubbliche e diventino beni comuni. In questo caso il valore prodotto sarebbe comunque un valore che resta nella società. È un processo più complicato e certamente non piace ai neoliberisti, ma sarebbe più efficace di una regolamentazione puramente restrittiva”.