Pena capitale o esilio. Comunque vada, il destino di JJ4 è segnato: le possibilità sono queste e così sia. Niente arresti domiciliari, niente semilibertà, niente assoluzione per l’orsa accusata di aver ucciso il 5 aprile scorso – nei boschi del Trentino – il runner Andrea Papi, 26 anni. JJ4 di anni ne ha 17 ed è una madre: era con i cuccioli quando avrebbe assalito il ragazzo che correva tra gli alberi sopra Caldes. Avrebbe, perché non ci sono testimoni oculari. A certificare l’evento è però il laboratorio della Fondazione Edmund Mach: le analisi genetiche sui reperti sono inoppugnabili. Così la procura si è mossa chiedendo l’eliminazione dell’animale, sollecitata dalla Provincia autonoma. Ma qual è la dinamica dei fatti?
L’avvocato del plantigrado, ovvero l’associazionismo animalista, sostiene la tesi della legittima difesa: l’orsa, sentendo in pericolo i figli, ha reagito in maniera violenta. Secondo l’antica legge di natura. <L’orsa ha fatto l’orsa – dice lo zoologo – non è colpevole>. E’ quel che in fondo pensa anche la famiglia della vittima. Carlo Papi, il padre, parla a muso duro: <La morte dell’orsa non ci restituirà nostro figlio. Troppo comodo chiudere questa tragedia eliminando un animale, a cui non può essere attribuita la volontà di uccidere. Non ci interessano i trofei della politica: pretendiamo che ad Andrea venga restituita dignità e riconosciuta giustizia>. Già, la giustizia. Il caso è scabroso e chiama in causa il comportamento dell’amministrazione di Trento. Possibile che nessuno avesse preso provvedimenti preventivi a evitare spiacevoli incontri ravvicinati?
Eppure JJ4 era ben conosciuta al Corpo forestale e alla Protezione civile. E’ nata lì, in Val di Sole, concepita da Joze e Jurka: due esemplari trasferiti dalla Slovenia nel progetto di ripopolamento Life Ursus. Ambiente ideale, ciò malgrado c’è un precedente a macchiare la sua fedina penale: a giugno del 2022 per difendere i cuccioli ha ferito due escursionisti, padre e figlio, sul monte Peller. La giunta provinciale ne aveva già allora chiesto l’abbattimento, ma l’ordine di cattura era stato annullato dal Tar e l’orsa se l’è cavata. Dietro l’obbligo però di indossare un braccialetto elettronico – pardon, un radiocollare – che trasmettesse in tempo reale i dati dei suoi spostamenti. Peccato che l’apparecchio non sia servito a salvare la vita ad Andrea Papi: era scarico, come un qualsiasi cellulare senza batteria. Del tutto inutile quindi cercare le tracce di JJ4 sulla mappa virtuale del sito Grandi Carnivori.

L’orsa nel frattempo è stata avvistata, attirata in trappola, catturata, sedata e spedita in prigione nel centro faunistico del Casteller. Lo stesso da cui per due volte è riuscito a evadere, sfondando la recinzione elettrificata, il collega Papillon – così chiamato per la sua abilità nella fuga e definito <problematico> come JJ4. Dietro la rete, l’orsa attende il verdetto. E’ sola: i cuccioli sono stati lasciati liberi, anche loro soli. Ma tra ordinanze e ricorsi, la battaglia legale si è aggrovigliata. Il Tar ha sospeso l’ordine di abbattimento firmato dal presidente trentino Maurizio Fugatti, accogliendo il ricorso degli animalisti che puntano a guadagnare tempo. Scrivono i giudici amministrativi: <La misura dell’abbattimento consegue all’affermazione della pericolosità dell’animale, ma tale affermazione non trova spiegazione nell’impugnato decreto, né nei due pareri dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, visto che nel caso in esame non sono stati eseguiti seri accertamenti al riguardo>. C’è però almeno una data certa, stabilita dal Consiglio di Stato: il 13 luglio. Fino ad allora nessuno toccherà Caino. Gli ambientalisti vogliono arrivare a dicembre quando il Tar – salvo contrordini – dovrebbe discutere nel merito le ordinanze della Provincia. Nel frattempo cercano una tana all’estero per l’orsa assassina. Il confino è meglio della morte.
Il brutto è che questa storia non è figlia dei tempi. E’ figlia di fatti, usanze, credenze e modalità procedurali che affondano nei secoli passati. Quando gli animali cattivi, per quanto possa sembrare incredibile, finivamo alla sbarra esattamente come gli esseri umani. A raccontarlo è un istruttivo libretto scritto nel 1892 dall’avvocato napoletano Carlo d’Addosio, intitolato Bestie delinquenti. La ricerca storica è puntigliosa e ad ampio spettro: setaccia la letteratura e i casi di cronaca, i documenti storici e le dicerie popolari. Ci spiega che tra il 1200 e il 1800, nell’Europa cattolica come in quella protestante, si tennero decine di regolari processi – l’autore ne sintetizza 144 in appendice – a carico degli animali. Divisi secondo due tipologie. La prima: maiali, bovini, asini, cavalli, cani che da soli oppure in gruppo avessero ferito o ammazzato un uomo, una donna, un bambino. Animali domestici, quindi, perché quelli selvaggi come orsi e lupi non erano soggetti all’azione legale in quanto non addomesticati: estranei al corpo sociale, i rei venivano eliminati senza passare per il procedimento penale. La seconda categoria comprendeva insetti, bruchi, cavallette, roditori capaci di devastare i raccolti. In aula contro di loro – imputati in contumacia – interveniva anche la Chiesa con la scomunica, l’esorcismo e l’anatema. Uno dei casi più antichi risale al 1338 nel Tirolo.
Il processo coinvolgeva attivamente il pubblico, ovvero il popolo. Come nei programmi televisivi odierni, il giudice era il conduttore che determinava (e teneva a bada) le urla e gli spintoni della folla. Cioè di quelli che Gramsci nei Quaderni dal carcere definiva <tifosi>, espressione di un <gusto melodrammatico>. Era comunque ammesso il perdono del colpevole. Vale il caso di tre maiali che nel 1379 uccisero il figlio del guardiacaccia a Saint Marcel-le-Jeussey: arrestati, graziati, scarcerati. Altrimenti l’animale veniva giustiziato. Le modalità erano le stesse riservate agli umani: al verdetto di condanna, notificato in prigione alla bestia colpevole, seguiva la pubblica esecuzione. Preceduta dalla tortura. Non per ottenere una confessione, bensì per osservare scrupolosamente il codice: il rispetto delle regole prima di tutto. Tanto che perfino la terminologia nei documenti era uguale a quella usata per uomini e donne: una sentenza della corte di Savigny datata 1457 parla di <maiali colti in flagrante>. Addirittura si arrivava a vestire il condannato – è accaduto a una scrofa che aveva ucciso un neonato, in Normandia, nel 1386 – con giubba, calzoni alle zampe posteriori e guanti a coprire quelle anteriori. La prassi era l’impiccagione, in subordine si faceva giustizia con il rogo o la sepoltura da vivi. Dopo la morte avveniva lo scempio del cadavere: la messinscena della sofferenza, come la ghigliottina durante la Rivoluzione francese, diventava un macabro spettacolo di piazza.
Secoli bui? Certo, ma anche quelli illuminati non scherzavano. D’Addosio cita il giurista e filosofo Gaetano Filangieri, vissuto nella seconda metà del Settecento nel Regno di Napoli: <In una capitale d’Italia, non ha gran tempo, il popolo fu spettatore di un giudice che, con tutti gli apparati della giustizia e col braccio dei suoi ministri, fece mazzolare alcuni cani, che avevano commesso il delitto di aver seguito con troppo impeto il loro naturale istinto>. In sostanza, un linciaggio legalizzato del branco mordace. Altro esempio cruento è riferito alla Carta de Logu, emanata nel 1395 da Eleonora d’Arborea. Nella celebrata raccolta di leggi, scritta in lingua sarda, si legge che gli asini predatori su terreni altrui erano mandati a processo. E assimilati ai ladri nella pena: taglio di un orecchio, e poi dell’altro in caso di recidiva, con sentenza emanata da un collegio di giudici campestri. Non sono meno crude le tesi della Scuola penale positiva ottocentesca incarnata da Cesare Lombroso, Enrico Ferri e Raffaele Garofalo. Tre emeriti scienziati che applicano alla criminologia teorie antropologiche, mediche e filosofiche: accanto all’uomo delinquente, ecco definito l’animale delinquente. Quello che ferisce e uccide <perché è nato con un’indole violenta>; oppure <mosso da antipatia o istinto pazzesco>; o ancora <senza nessun motivo>. La conseguenza è che di fronte a questi atti la società deve reagire senza impantanarsi sul libero arbitrio e l’intelligenza del crimine: il reato è offesa, la pena è difesa. Nient’altro conta. E dunque processo, condanna, carcere o esecuzione capitale a seconda dei casi.
Un secolo e mezzo fa l’avvocato d’Addosio concludeva la sua ricognizione erudita, ironica e rocambolesca con un auspicio per gli animali: <E’ ormai tempo di finirla con i processi, le persecuzioni; le sevizie a questi poveri esseri, viventi e senzienti, tanto prossimi a noi, tanto simili a noi. E’ tempo di migliorare le condizioni loro, migliorando e ingentilendo nel tempo stesso gli animi nostri>. Ed è tempo quindi di tornare alla domanda iniziale: che sarà di JJ4? Per l’orsa delinquente si affaccia una possibilità invocata dagli animalisti. Un viaggio a loro spese di 1514 chilometri, ovvero il trasloco nel Libearty Sanctuary di Zarnesti, in Romania, dove vivono più di cento plantigradi. Cristina Lapiş, presidente dell’associazione Milioni di Amici che nel 2008 ha gettato le basi dell’oasi, attacca: <Vorrei ricordare che in Italia la pena di morte non esiste più. Esistono invece leggi europee che tutelano gli orsi e il Trentino deve rispettarle>. Una struttura-ricovero non è il migliore dei mondi possibili: gli esperti si dividono sulla soluzione appena proposta, alcuni fra loro temono il sovraffollamento. Non è come essere liberi, certo, ma senza un accordo fra le parti JJ4 sarà abbattuta. E del resto: non si uccidono così anche i cavalli?