La celebrazione del 25 aprile – ricorrenza della liberazione dell’Italia dal fascismo – si accompagna puntualmente al dibattito sul significato della data. Una discussione che implica la riscoperta delle motivazioni della lotta antifascista e la riflessione sulle radici del nuovo Stato sorto dopo il 1945.
Il revival storico permette di ricordare la stagione esemplare che ridette dignità al Paese affrancandolo dalla dittatura del ventennio. Finalmente era possibile il ritorno alla democrazia, dopo la guerra insensata, le discriminazioni razziali, la violenta soppressione delle libertà.
Troppo spesso però emergono distinguo e precisazioni, persino grossolane manipolazioni della realtà. Il fenomeno si è fortemente accentuato con l’estrema destra al potere. Per la prima volta, ci si interroga persino sulla partecipazione degli esponenti di destra alle manifestazioni celebrative, è concreto il rischio di diserzioni. Massimi rappresentanti delle istituzioni hanno inopportunamente preso le distanze dalla storia della Resistenza.
Sono state uno choc le dichiarazioni di Ignazio La Russa, presidente del Senato e dal passato dichiaratamente neofascista, su via Rasella: “vennero uccisi non biechi nazisti delle SS, ma una banda musicale di semipensionati”. Ma erano un reparto armato di polizia nazista sudtirolese che tornava da un’esercitazione.
Ha destato stupore il messaggio, per l’eccidio delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, secondo cui le 335 persone vennero trucidate “perché italiane”. Ma si scambia l’identità delle vittime con la ragione dell’assassinio. Quegli innocenti furono uccisi perché antifascisti.
Non c’è solo ignoranza, questo è travisamento dei fatti: c’è la riluttanza a dare il nome giusto alle cose e indicare semplicemente come antifascisti le vittime della dittatura, a scegliere la parte dalla quale porsi. Queste espressioni svalutano l’antifascismo.
La tattica è precisa. Procede tra errori, silenzi, provocazioni, dissimulazioni. L’obiettivo finale è stemperare le differenze tra fascisti e antifascisti, affermare che l’antifascismo sia superato perché il fascismo non c’è più. Gli schemi di allora non sono riproducibili qui ed ora, dunque perde valore anche l’antifascismo.
L’impossibile rivincita sulla storia, a distanza di tanti anni, esige la manipolazione della realtà e lo stordimento delle coscienze, ma può accadere. L’alterazione della storia rende verità la menzogna nella confusione silente dell’opinione pubblica.
La condizione necessaria è la volubilità della memoria collettiva, l’eclissi della ragione. C’è una ragione per alimentarle. Modificare il senso delle cose serve a controllare il passato e ciò non è fine a sé stesso. Chi controlla il passato ha in mano il presente e si predispone a controllare il futuro. Delegittimare l’antifascismo come valore primario è l’obiettivo finale.
I ragionamenti mettono in dubbio la persistente attualità del ricordo, offrono pretesti per sottrarsi alla comune celebrazione della liberazione, insinuano financo una presunta divisività della data.
Questa posizione fa leva sulla falsa identificazione dell’antifascismo con la sinistra, mentre alla Resistenza parteciparono soggetti di ogni orientamento (dai comunisti ai liberali, ai cattolici; dai monarchici ai repubblicani). Qualificare l’antifascismo come posizione di parte “giustifica” l’assenza, nelle celebrazioni, di chiunque sia estraneo alla sinistra. L’uso della storia così risponde a logiche di fazione, mostra il rifiuto di condividere i valori fondanti della Costituzione.
Tuttavia seppellire la Resistenza nella falsificazione riesce impossibile se si assume il dovere etico di dare un nome agli eventi, cioè di comprenderli e farli propri. Dare voce ai fatti storici permette di appropriarsene, restituendo significati a fatti muti.
La ricorrenza della Liberazione è in primo luogo racconto delle persone che furono disposte a pagare con la vita il bisogno di libertà. «Quando mi sono venuto a trovare in una situazione in cui le persone venivano imprigionate e perseguitate per la loro appartenenza a una razza o le idee, è stato logico per me mettermi dalla parte di coloro che difendevano la libertà, la libertà mia, la libertà di ogni uomo» osservò don Giovanni Barbareschi.
Soltanto la coscienza interiore indusse Josef Mayr-Nusser, padre di famiglia, membro dell’Azione cattolica e di un gruppo antinazista in Alto Adige, arruolato a forza nell’esercito tedesco, a rifiutare il giuramento di fedeltà ad Hitler. Spedito a Dachau, morì di stenti nel tragitto. È stato dichiarato “beato” dalla Chiesa cattolica.
Sono tante le storie di uomini, delle loro speranze, delle loro scelte coraggiose. Per questo Lidia Menapace poté scrivere che «la Resistenza non fu un fenomeno militare, come erroneamente si crede. Fu un movimento politico, democratico e civile straordinario. Una presa di coscienza politica che riguardò anche le donne».
La memoria non è una sorta di cimitero di cose morte, inerti e inutili, alla mercé di disegni perversi di malintenzionati. È piuttosto raccolta di ricordi ed esperienze, capaci di vivere sempre, perché parte del mondo di oggi. Noi, uomini del presente, ne siamo i primi custodi e responsabili. Appropriarsi di questo patrimonio ne perpetua la vita nell’oggi, impedisce che il contenuto possa svilirsi. Il passato al servizio della vita diventa memoria del futuro.