Edson Arantes do Nascimento noto al mondo come Pelé è morto. Il brasiliano, che è stato uno dei più grandi calciatori della storia, aveva 82 anni.
A darne notizia, sul suo profilo Instagram, la figlia Kely Nascimento: “Tutto ciò che siamo è grazie a te. Ti amiamo infinitamente. Riposa in pace”.
Era ricoverato dal 29 novembre all’ospedale Albert Einstein, a San Paolo, per un’infezione respiratoria dopo aver contratto il Covid-19 e per la rivalutazione delle cure del tumore al colon.
Pelé è nato a Très Coracoes, una cittadina nel Minas Gerais a metà strada fra Belo Horizonte e San Paolo. Figlio di un ex calciatore rimasto nell’anonimato e di una casalinga, si è trasferito da bambino con la famiglia a Bauru, un centro di oltre 300 mila abitanti a ridosso della metropoli paulista.
Come recentemente documentato in un film sulla sua vita, è cresciuto in una favela sbizzarrendosi a giocare a pallone negli spazi polverosi con una sfera di stracci. Fin dalle prime estemporanee esibizioni si capiva che era il più dotato in quella ciurma di scugnizzi. La svolta venne nel 1950 quando dal tetto di una baracca fatiscente visse alla radio il dramma del Maracanazo, la storica disfatta a Rio nell’incontro decisivo del mondiale ’50 contro l’Uruguay. Un ko che mise in ginocchio l’intero Brasile provocando un’ondata di suicidi. Fu allora che fece una promessa al padre: avrebbe fatto di tutto per riscattare quell’umiliazione.
Ma il processo di maturazione non fu una passeggiata. Notato da un talent scout in una sfida amatoriale a cui partecipava anche Altafini, entrò nelle squadre giovanili del Santos. All’inizio il suo talento istintivo fu però imbrigliato. Dopo la tremenda batosta del Maracanazo, imputata anche all’ingenuità di un gioco sì spettacolare ma troppo anarchico, i tecnici brasiliani cercarono di imporre una maggior disciplina tattica che andava a discapito dell’estro. Ma le virtù funamboliche e la classe cristallina di Pelé erano troppo lampanti per poter essere soffocate. Pelè si impose di autorità per le sue qualità superiori.

E impiegò solo sette anni per onorare la promessa del riscatto. Appena diciassettenne, nel ’58 fu determinante per la conquista in Svezia della prima Coppa brasiliana. Segnò prima una tripletta alla Francia e poi una doppietta in finale alla Svezia (5-2 il punteggio finale).
Poi rivinse altre due volte il mondiale: nel ’62 in Cile, anche se non giocò la finale con la Cecoslovacchia (3-1) per un grave infortunio nella prima fase del torneo. E al ’70 in Messico contro l’Italia (4-1) facendo salire a 12 il numero dei gol segnati nelle sue partecipazioni alla Coppa del mondo.
For a sport that brings the world together like no other, Pelé’s rise from humble beginnings to soccer legend is a story of what is possible.
Today, Jill and I’s thoughts are with his family and all those who loved him. pic.twitter.com/EkDDkqQgLo
— President Biden (@POTUS) December 29, 2022
Dopo il ritiro (a 37 anni) diventò un ambasciatore itinerante del calcio. E negli anni Novanta, memore dei difficili trascorsi giovanili e animato da uno spirito di riscatto per il popolo delle favelas, accettò l’incarico di ministro dello Sport nel governo di Fernando Henrique Cardoso.
Il suo trono di “rey” non ha mai vacillato. Neanche per le polemiche con Maradona e per il dilemma su chi fra i due sovrani del pallone sia stato il miglior calciatore di tutti i tempi. Entrambi hanno legioni di agguerriti fans.

Ma appartenendo a epoche diverse (Pelè furoreggiò fra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Settanta, Maradona per tutti gli anni Ottanta) è impossibile stabilire una gerarchia. Anche nell’indole erano nette le differenze. Riflessivo e moderato Pelè. Generoso ma in preda ai demoni Maradona, scomparso nell’autunno del 2020 a soli 60 anni. Certo, anche Pelé non riusciva sempre a contenersi. Il suo limite era la vanità. Un giorno se ne uscì con una rivendicazione particolarmente enfatica. “Sono nato per il calcio, come Beethoven per la musica e Michelangelo per la pittura”.
Maradona lo attaccò accusandolo di pensare solo alla gloria personale e non al calcio come veicolo di sviluppo sociale. “O rey” replicò che “era tutta invidia”. Ma l’anno dopo fu invitato proprio dal “pibe de oro” a una trasmissione televisiva a Buenos Aires (“La notte dei 10”, il loro numero di maglia, il numero dei grandi campioni). Diego abbracciò platealmente il rivale riconoscendolo come “O rey”. Al fondo c’è sempre stata una grande stima reciproca. Come si addice fra i giganti. Anche se nessuno dei due sarebbe stato mai disposto ad ammettere la superiorità dell’altro.