L’Ucraina torna nei bunker. Da Kiev a Dnypro, dal Donbass a Zaporizhzhia, il Paese è dovuto scendere di nuovo negli abissi delle catacombe moderne, ancora una volta ostaggio della sinfonia diabolica di Vladimir Putin.
Con una pioggia di missili, per un totale di mezzo miliardo di dollari di costi che vanno a incidere sul già provato bilancio militare della Difesa di Mosca, si è consumato il giorno della vendetta del Cremlino per l’operazione sul ponte di Kerch in Crimea. La sinfonia diabolica è iniziata alle sei del mattino, un’esplosione, poi un’altra e un’altra ancora, era tempo che non si sentiva tutto ciò.
Le notizie dalla capitale e dalle altre città facevano capire una cosa sola: siamo sotto attacco. Ed anche chi vi scrive in questo momento è stato costretto, suo malgrado, a ripiegare sottoterra. Il nastro della storia si è riavvolto a quei giorni di marzo dove, come abbiamo testimoniato e raccontato, l’assedio di Kiev appariva la soluzione finale. Un ritorno alle origini della guerra che il Cremlino ha voluto. Tre cambi di strategia, tre rivolgimenti tattici sul campo, e siamo punto e da capo. La guerra riparte da dove era iniziata.

La controffensiva ucraina ha messo alle strette lo zar, e lui ha alzato il tiro, sempre di più, verso un punto di non ritorno. Una dopo l’altra, con cinica spietatezza, la vendetta dell’autocrate messo alle strette si è abbattuta sulle città dell’Ucraina, indiscriminatamente, militari o civili, infrastrutture o condomini, poco importa. Una furia di 83 missili e 17 droni kamikaze appena comprati dall’Iran lanciati su due terzi delle regioni del Paese, con almeno undici morti e 89 feriti, infrastrutture strategiche distrutte, blackout di massa, incendi ed esplosioni e il terrore che dopo mesi torna nel cuore della capitale.
L’inferno scatenato dalla Russia dopo l’attacco alla penisola simbolo delle annessioni, per cui lo zar e il New York Times hanno pubblicamente accusato i servizi di Kiev, fa ripiombare l’Ucraina nel baratro, più assoluto, dopo settimane di speranza per i successi della controffensiva nell’est e a sud. Una resa dei conti di cui si era avuto un primo assaggio il giorno prima quando, alle due di notte, Zaporizhzhia la regione che ospita la nota centrale nucleare ora sotto il controllo dei russi viene di nuovo travolta dalla furia russa, almeno dodici missili tirati su zone abitative ma che secondo Mosca dovevano stanare mercenari posizionati in aree abitate.
Dodici missili, quattro da crociera X-22 sganciati da un aereo Tu-22M3, altri due X59 da un Sukoi-su35, e poi gli S-300 lanciati da postazioni terrestri nei territori occupati di Melitopoli e Berdiansk. Questa volta Putin doveva inviare un segnale durissimo prima di tutto all’interno, stretto tra le pressioni dei falchi del Cremlino che invocano la recrudescenza assoluta del conflitto. Compreso il leader ceceno Ramzan Kadyrov.

A partire da settembre è infatti iniziata una nuova fase della guerra russo-ucraina che si identifica con l’inizio della controffensiva delle forze di Kiev nell’est del Paese, in particolare nell’Oblast di Kharkiv, e nella drammatica escalation politico-militare voluta da Vladimir Putin, i cui risvolti potrebbero avere conseguenze che vanno ben oltre la dimensione del conflitto stesso. Dinanzi alla veloce debacle sul terreno registrata dall’armata russa, protagonista in alcuni casi di vere e proprie fughe rocambolesche dalle zone occupate, il leader del Cremlino ha adottato una strategia in tre mosse.
La prima è prendere di mira le infrastrutture strategiche, centrali, elettriche, nucleari e dighe. La seconda è convocare i referendum per “legittimare” l’annessione delle zone occupate e trasformare la narrativa bellica. La terza è la “mobilitazione parziale”con la conseguente coscrizione di almeno 300 mila riservisti da impiegare sui vari fronti di guerra.
A ciò si aggiunge un altro elemento che non solo desta preoccupazione tra le cancellerie occidentali, ma turba anche gli amici di Mosca, come Cina e India. Così mentre gli ucraini riuscivano a liberare città e villaggi nella regione di Kharkiv, tra cui Izyum, snodo strategico per la catena logistica delle truppe di Mosca, sfondando sino in Donbass con la liberazione di Lyman, Putin attuava il suo piano inaugurando la terza fase della guerra.

Il ribaltone sul terreno, infatti, non ha impedito, anzi ha accelerato la ratificazione dei trattati di annessione, formalità, come del resto gli stessi referendum, ben lontani dal rispettare i più elementari standard democratici e bollati come una “farsa” da gran parte della comunità internazionale. Ma funzionali alla escalation del conflitto che giustificherebbe la mobilitazione “parziale” del Paese, con cui tamponare le falle sui fronti bellici. Mosca riconosce le regioni di Donetsk e Lugansk nei loro confini amministrativi del 2014, così come gli Oblast di Kherson e Zaporizhzhia.
Ora che le quattro regioni sono formalmente parte della Russia, il conflitto in Ucraina può essere presentato internamente non più come “l’operazione militare speciale” propria dalla narrativa originale del conflitto, ma come una “guerra patriottica” per la liberazione e la difesa del territorio nazionale. Il paradossò è che mentre sulla Piazza Rossa Putin celebrava il “ritorno a casa” dei territori ucraini occupati, l’esercito di Kiev riconquistava la città di Lyman nella regione di Donetsk, facendo emergere così la prima grande crepa sul muro offensivo russo in Donbass. Questo si accompagna alla nuova strategia messa a punto dagli ucraini nel sud penetrando su una nuova direttrice orientale, ad ovest del fiume Dnypro, dove da Zolota Balka le truppe sono giunte a Havrylivka, sino alla frontiera di Dudchany. L’obiettivo è chiudere in una sacca la zona a nord-est di Kherson, parcellizzare i territori controllati dai russi e progredire a testuggine verso sud.
La rapida perdita di terreno dei russi è direttamente proporzionale, dicono alcuni analisti, alla concretezza dell’ipotesi del ricorso all’arma atomica tattica da parte di Putin, peraltro sollecitata dallo stesso Kadyrov, alleato ingombrante del Cremlino che ha addirittura incolpato della perdita di Lyman il generale Aleksandr Lapin, comandante del Distretto militare centrale, definendolo “un incompetente”. Il tutto dinanzi a un confronto a distanza tra Putin e Volodymyr Zelensky: il primo, dopo aver incassato l’annessione “fake” delle regioni si è detto pronto a negoziare (un bluff secondo molti), mentre il presidente ucraino ha risposto che finché lo zar è al potere margini di trattativa non ve ne saranno mai. Come dire: “O me o lui”.