“Prego, si accomodi. Lo gradisce un whisky?”. Attico a Zafaranyie, i Parioli di Teheran, alle pendici delle montagne che circondano la capitale iraniana. La padrona dell’elegante appartamento in cui ero stato invitato per cena mi stringe la mano con la destra e con la sinistra mi allunga un bicchiere di alcol legalmente proibito dalla teocrazia al potere. Declino con garbo, spiegando un po’ imbarazzato che non reggerei un superalcolico a stomaco vuoto. Nel salotto dove vengo introdotto tutti alzano i calici e nessuno si fa scrupolo di violare le norme. “Le bottiglie proibite ci vengono recapitate via posta”, mi confida un giovane attore in ascesa. “Basta distribuire qualche mancia a chi dovrebbe vigilare”.
Imprenditori, artisti, politici di prudente orientamento liberale discutono, insieme a mogli o compagne rigorosamente non velate, della necessità di intensificare i rapporti con l’Occidente, di libertà di espressione, di nuovi orizzonti culturali, di evoluzione dei costumi. Un confronto di opinioni non dissimile da quelli abitualmente ricorrenti negli strati più evoluti delle nostre società.
Il fermo immagine risale agli ultimi mesi (2013) della presidenza di Mahmud Ahmadinejad, il leader ultraconservatore che aveva inasprito la repressione degli stili di vita occidentali. Ma in un’era di globalizzazione neanche la più spietata delle dittature può chiudere tutti gli spiragli di modernità che si insinuano dai mondi esterni. Già una decina di anni fa l’insofferenza per l’ingabbiamento religioso (che si protrae dal 1978, anno della caduta dello Scià) minacciava di esplodere. Soprattutto fra la borghesia affluente e l’universo giovanile. Già una decina di anni fa il pugno di ferro dei custodi della moralità si era abbattuto più volte in maniera pesante su chi osava sfidare apertamente il potere. Prodromi ricorrenti dello scontro spinto in questi giorni ai livelli di guardia dopo l’uccisione della 22enne Mahsa Amini (colpevole solo di non portare in maniera del tutto ortodossa il velo) e, successivamente, di decine di manifestanti.

Già all’epoca i dissidenti che non uscivano allo scoperto ricercavano le vie di fuga in dimensioni parallele. Sugli aerei delle compagnie occidentali le donne iraniane, subito dopo il decollo da Teheran, si liberavano dei tuniconi e del velo sfoderando abiti e acconciature sexy che in città le avrebbero esposte a severe censure. I ceti più abbienti aggiravano il coprifuoco che scattava a mezzanotte (ora in cui ogni locale doveva abbassare le serrande). Il popolo gaudente della notte si rintanava nelle sale riservate dei ristoranti più esclusivi (che si premunivano contro le ispezioni pagando tangenti ai custodi della moralità) tirando le ore piccole fra libagioni alcoliche, brani di hard rock e balli sfrenati.
Di giorno gli studenti di entrambi i sessi frequentavano molto i giardini. Dove si facevano beffe dei divieti di flirtare pubblicamente azzardando furtive carezze nell’innocente gesto di scambiarsi i libri. E dopo mezzanotte giravano in macchina per la città svuotata di attrazioni comunicandosi via cellulare, grazie al bluetooth, le eruzioni dei sentimenti e gli appetiti sessuali. Con i progressi della tecnologia i canali di trasmissione clandestina si sono naturalmente moltiplicati rendendo oggi del tutto naturale (anche se sotto banco) tutto ciò che secondo l’inflessibile dottrina degli ayatollah sarebbe tassativamente vietato.
Grazie ai contatti sotterranei che anche in paesi problematici ogni cronista è tenuto a coltivare mi capitò di assistere a un meeting segreto di rivoltosi duri e puri. Il punto di incontro era situato in un vicolo vicino al bazar, davanti a un chiosco di bevande (beninteso non alcoliche). Luogo neutro dove gli assembramenti, sempre sospetti, avevano maggiori possibilità di passare inosservati per ovvie ragioni commerciali. Notai una serie di conciliaboli frettolosi. In cui fu deciso il luogo di raduno che per ragioni di sicurezza andava sempre improvvisato. Il capannello si disperse poi in varie direzioni e la guida che mi aveva introdotto mi accompagnò per una selva di stradine polverose verso il sottoscala di una palazzina fatiscente che serviva da deposito. Intorno a un tavolaccio c’erano una decina di sedie. Dove furono fatte sedere le ragazze che si sbarazzarono subito del velo. Tutt’intorno schiamazzavano una trentina di dissidenti maschi che alternavano le invettive politiche alle discussioni sul campionato di calcio (tutto il mondo è paese).

Prese la parola il leader. Un ragazzone dallo sguardo carismatico e dalla barba ben curata. Fu stilato un calendario di manifestazioni per i giorni successivi. E infine fu aperta la discussione sulle strategie di lungo raggio. Nessuno contestava il patriottismo difeso a spada tratta dal regime. Nessuno criticava le radici religiose dell’Iran che venivano rispettate anche ai tempi dello Scià, anche se non declinate in una chiave integralista.
Si aspirava molto più banalmente a far circolare aria fresca, adeguandola allo spirito dei tempi moderni, alle pulsioni giovanili che sono uguali sotto ogni latitudine. Sulle prospettive più immediate il dibattito si biforcò. Eravamo alla vigilia delle elezioni per la nomina del nuovo presidente. Il favorito era Hassan Rohuani, un leader del fronte progressista che prometteva caute aperture. Metà dell’assemblea manifestava fiducia nel suo programma innovatore. L’altra metà era piuttosto scettica ricordando il deludente precedente di Mohammad Khatami (il predecessore di Ahmadinejad) che aveva illuso gli scontenti con una visione esplicitamente riformista ma era stato poi imbrigliato dal conservatorismo intransigente dell’ayatollah Ali Khamenei, il Capo supremo. Per l’ala dura l’unica via d’uscita era la rivoluzione perché solo gli ingenui potevano sperare che il regime si sarebbe mai ammorbidito. La discussione fu interrotta da un segnale di allarme che fece schizzare i rivoltosi verso l’uscita prima dell’arrivo dai basiji (le forze paramilitari della sicurezza sciita).
Sopportare nella speranza che il regime si mitighi o imploda anche sotto il peso delle sanzioni? O usare la piazza per far esplodere la protesta in tutto il paese? È lo stesso drammatico bivio in cui si ritrova l’Iran d’oggi, ancor più frustrato nelle sue aspettative dalla presenza ai vertici del potere di un altro ultraconservatore come Ebrahim Raisi che non sembra disposto a nessuna concessione. Scorrerà probabilmente altro sangue, la libertà rimane ancora un miraggio lontano.