I leaders dell’Unione europea hanno trovato un’intesa di massima per ridurre del 90% le importazioni di petrolio dalla Russia entro la fine dell’anno, sbloccando così un’impasse dovuta alla prolungata contrarietà dell’Ungheria. L’accordo è stato raggiunto nella tarda serata di lunedì e farà parte del sesto pacchetto di sanzioni UE contro Mosca. L’UE importa circa il 40% del suo gas naturale e il 25% del suo petrolio dalla Russia.
Il nuovo round di misure includerà inoltre l’esclusione di Sberbank, la principale banca russa, dal sistema di comunicazione interbancaria SWIFT, nonché il divieto per tre grandi emittenti statali russe di distribuire i prorpri contenuti radiotelevisivi sul territorio UE.
Contemporaneamente, prosegue il negoziato internazionale per disinnescare la “guerra del grano” e sbloccare l’export di prodotti agricoli dai porti ucraini. Sabato scorso il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron hanno dialogato telefonicamente con Vladimir Putin per trovare una via d’uscita. Il capo di Stato russo si è detto disponibile a far ripartire a ritmo sostenuto le spedizioni di grano e fertilizzanti dai porti ucraini del Mar Nero, a condizione che alcune sanzioni UE contro Mosca vengano ritirate.
Il dossier grano è stato ripreso martedì anche dal presidente del Consiglio Mario Draghi, che ha sottolineato come la ripresa dell’export di grano ucraino sia resa estremamente impervia dalle numerose mine navali piazzate proprio nel Mar Nero, in gran parte di fronte ad Odessa (il principale porto ucraino). Il Governo di Kyiv avrebbe dato la disponibilità a rimuoverle, ma chiedendo garanzie a Mosca sul fatto che non partiranno attacchi da parte della Russia nel corso dell’operazione.
La questione verrà discussa ad alto livello il prossimo 8 giugno in un incontro tra il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e il suo omologo turco Mevlut Cavusoglu, in occasione del quale le due diplomazie esploreranno la possibilità di creare un “corridoio del grano” per l’export agricolo ucraino.

Lunedì, sempre la Turchia si è detta pronta a organizzare un trilaterale tra Russia, Ucraina e ONU a Istanbul. Lo ha riferito il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan all’omologo Vladimir Putin nel corso di un colloquio telefonico lunedì pomeriggio. La telefonata è stata seguita poco più tardi da un analogo scambio di vedute tra Erdoğan e l’ucraino Zelens’kyj .
Ankara si è proposta come garante in caso di tregua tra Mosca e Kyiv, e ha ribadito l’appello alle parti affinché “continuino a usare i canali del dialogo e della diplomazia”.
Poche ore prima, la diplomazia turca aveva sondato il terreno per un trilaterale virtuale tra Putin, Zelens’kyj e lo stesso Erdoğan sempre nella giornata di lunedì. Nonostante l’ipotesi non fosse stata scartata a priori dal presidente ucraino, che si era dato del tempo per “valutarla”, da Mosca è arrivato un secco net da parte del Cremlino per bocca del portavoce presidenziale Dmitrij Peskov.
L’intensa attività diplomatica di Erdoğan risponde a una precisa strategia del Governo turco. Finora Ankara è rimasta infatti fedele alla strategia della NATO, condannando esplicitamente l’invasione russa e continuando a rifornire l’Ucraina di droni da combattimento. Tuttavia, si è ritagliata una sfera di autonomia rispetto agli USA, rifiutandosi di aderire alle sanzioni occidentali contro l’economia russa e spendendosi in primo piano alla ricerca di un compromesso tra Mosca e Kyiv.
Sul campo, si intensificano di ora in ora gli scontri tra gli eserciti di Mosca e Kyiv nella regione orientale del Donbass. Da qualche giorno, l’epicentro del conflitto è divenuta la città di Severodonetsk, che prima dello scoppio del conflitto contava circa 100.000 abitanti. La conquista della città da parte dell’esercito russo sembra questione di giorni. Essa consentirebbe al Cremlino di raggiungere uno degli obiettivi bellici prefissati lo scorso 24 febbraio, ossia il controllo della provincia russofona di Luhansk, contesa da ucraini e filorussi dal 2014.

Severodonetsk e la città confinante di Lysychansk rimangono gli ultimi due baluardi di resistenza ucraina nella provincia, superati i quali Mosca otterrebbe un controllo pressoché totale della zona nord-orientale del Donbass. Dopo la serie di insuccessi militari nella regione di Kyiv, le truppe russe hanno concentrato i loro sforzi proprio nel Donbass, ufficialmente in difesa delle sedicenti repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk.
Gli intensi combattimenti tra le due fazioni hanno di fatto reso Severodonetsk un cumulo di polvere monca di infrastrutture (analogamente a quanto già successo a Mariupol’). Proprio in città lunedì sarebbe rimasto mortalmente ferito dal fuoco russo il giornalista francese Frederic Leclerc Imhoff. Il reporter era accreditato per l’emittente transalpina Bfm Tv e stava seguendo da vicino l’evacuazione dei civili (poi sospesa) dalla città assediata, quando è stato raggiunto al collo da un proiettile russo che ha perforato il vetro del convoglio su cui viaggiava.
La concentrazione degli sforzi bellici russi a Severodonetsk ha peraltro consentito alle truppe ucraine di lanciare una mini-controffensiva a sud, in particolare nelle regioni di Cherson e Melitopol’. Le truppe di Kyiv possono contare su uno stabile afflusso di armi, munizioni, intelligence e soldi da parte dell’Occidente, Stati Uniti in primis.
La Casa Bianca starebbe infatti già preparando un nuovo pacchetto di aiuti militari. Questo, secondo le prime indiscrezioni, avrebbe dovuto includere anche sistemi missilistici a medio-lungo raggio, che renderebbero l’esercito ucraino in grado di colpire obiettivi anche sul territorio russo non immediatamente prossimo al confine. Tuttavia, nelle scorse ore è arrivata la smentita del presidente USA Joe Biden, che ha escluso che Washington invierà missili a medio raggio. Almeno per il momento.