Jakarta non può più essere la capitale dell’Indonesia. Ormai non è più possibile rinviare: la città, centro nevralgico e snodo imprenditoriale del Sud Est asiatico, sta affondando.
Fino a pochi secoli fa, questa città era “un porto commerciale fradicio e infestato da insetti per il regno indù di Sunda”, come l’ha definita un famoso giornalista. Nel 1527, dopo la conquista da parte dei sultani locali, iniziò il cambiamento. Pochi decenni dopo, i colonizzatori olandesi se ne appropriarono e ne fecero la propria base in Asia ridisegnandola: vennero realizzate nuove strade e scavati dei canali per farla somigliare alla capitale olandese (ma anche per far fronte all’acqua dei tredici fiumi che alimentano la città alimentati dalle piogge costanti – piove quasi 300 giorni all’anno). Jakarta visse un periodo di splendore mai più visto (non a caso venne chiamata Jayakarta, “città vittoriosa” nella lingua locale).
Se, nel corso dei secoli, la sua fama e il suo splendore hanno avuto alti e bassi, la sua crescita non si è mai arrestata. Oggi Jakarta è una metropoli che vanta una delle economie maggiormente in crescita nel mondo: nel 2014, ha registrato il più alto ritorno sugli investimenti in immobili di lusso rispetto a qualsiasi altra città del mondo. Anche il numero degli abitanti è aumentato a dismisura: la sua popolazione da 9.607.787 di abitanti (dati censimento del 2010), nel 2016 ha superato i 10 milioni di persone. Ma questo è solo il dato relativo al centro urbano di Jakarta. L’area metropolitana, però, è molto più vasta: Jabodetabek (questo il nome dell’area dalle iniziali di Giacarta, Bogor, Depok, Tangerang e Bekasi) supera già i 30 milioni di abitanti e ricopre una superficie totale di 4.384 chilometri quadrati.
Una crescita rapida ma incontrollata: la città è un groviglio di nebbia, autostrade e grattacieli, una metropoli caotica difficilissima da gestire. Ma non basta, l’aumento della popolazione sembra non avere limiti. Anche dopo che essersi resi conto, alcuni decenni fa, che questa crescita stava conseguenze rilevanti sul territorio: come in altre megalopoli asiatiche (e non solo) lo sfruttamento intensivo delle falde acquifere, legato anche alla crescita della popolazione, ha prosciugato il sottosuolo e ha causato il progressivo abbassamento del terreno. In altre parole, anno dopo anno, Jakarta sta affondando. Un fenomeno che qui sta avvenendo con una rapidità inimmaginabile: in alcune zone la città “scende” anche di 17 cm (6,7 pollici) all’anno. A questo si aggiunge che la parte settentrionale della capitale dell’Indonesia, posta alla foce del Ciliwung Riveron e vicino a un’insenatura del Mar di Java, sorge su alcune piane alluvionali soggette a inondazioni (circa il 40 percento di Jakarta si trova ora sotto il livello del mare). Solo il sud di Jakarta è collinare e meno soggetto a questi fenomeni.
Le conseguenze non sono difficili da intuire. Un modello previsionale, elaborato dai ricercatori del Bandung Institute of Technology, ha dimostrato che, entro il 2050, il 95% della parte settentrionale di Jakarta potrebbe essere sommersa dall’acqua. Se la velocità della ”subsidenza” della città dovesse rimanere inalterata, in pochi anni l’intera città potrebbe diventare inabitabile.
I problemi legati alle inondazioni non sono più una novità per gli abitanti di Jakarta, ma nessuno, fino a qualche anno fa, pensava che fosse necessario abbandonare la capitale e trasferirla altrove. Alcuni “esperti” avevano proposto possibili soluzioni alternative (come la realizzazione di un gigantesco muro per “difendere” le coste dall’oceano), ma tutte sono apparse insufficienti o irrealizzabili.
L’unica soluzione è cambiare capitale. Magari facendone una nuova in un’altra zona del Borneo. A riconoscerlo è stato lo stesso Presidente Widodo, in un discorso in Parlamento in occasione dell’anniversario dell’indipendenza del paese. “Jakarta attualmente porta due carichi contemporaneamente: essere il centro del governo e dei servizi civili, oltre ad essere il centro degli affari”, ha scritto, “In futuro, questa città sarà ancora in grado di sopportare quel peso?”. In un post su Facebook, Widodo ha descritto la situazione e ha invitato gli indonesiani a suggerire luoghi alternativi per la capitale.
Intanto, Widodo avrebbe già incaricato il proprio staff di attivarsi in tal senso. Un lavoro tutt’altro che semplice e per diversi motivi. Innanzitutto per i costi che una simile operaizone comporta: alcune stime parlano di un costo di decine e decine di miliardi di dollari americani. E poi per i tempi necessari per attuarla, che potrebbero estendersi anche un decennio. A questo si aggiungono le caratteristiche che dovrebbe avere il sito dove far sorgere la nuova capitale (strategicamente dovrebbe essere situata nel centro dell’Indonesia ma anche in un’area abbastanza grande e sicura da minacce di catastrofi naturali). Ma non basta. Il Ministro della Pianificazione indonesiano Bambang Brodjonegoro ha dichiarato che la nuova capitale dovrà disporre di abbondanti risorse idriche, essere libera da inquinamento e altre questioni ambientali ed essere un luogo in cui i locali hanno un atteggiamento accogliente nei confronti dei migranti domestici. Tutti aspetti che potrebbero rallentare il trasferimento.
Tra le aspiranti al ruolo di nuova capitale c’è Palangkaraya, città nel Kalimantan centrale che attualmente conta meno di 250.000 abitanti. Già nel 1957, l’allora presidente Sukarno aveva proposto di trasferire qui la capitale. Non se ne fece niente, anche perchè Palangkaraya dista più di 1.000 chilometri da Jakarta. Fatto questo che renderebbe un eventuale trasloco tutt’altro che facile. Spostare le capitali, non solo comporta enormi costi nascosti, ma ha anche un pesante impatto sulla congestione e sul tasso di crescita. Per questo motivo, secondo alcuni, “storicamente impiega dai 50 ai 150 anni istituire un comune fiscalmente valido”.
Ma il caso di Jakarta non è l’unico. La corsa sfrenata verso il sovraffollamento delle metropoli (sono molti i paesi dove è in atto un fenomeno di concentrazione del 70% o più della popolazione nelle grandi città o nelle metropoli) quasi sempre avviene senza che si riecano a risolvere i problemi urbanistici principali. E le coseguenze sono, quasi sempre, disastrose. Lo stesso Widodo ha riportato diversi esempi citando la Corea del Sud, ma anche il Brasile e il Kazakistan (la capitale è stata spostata da Almaty a Astana nel 1997) e la vicina Malesia, che, nel 1999, ha spostato la capitale amministrativa da Kuala Lumpur a Putrajaya. Anche Città del Messico sta attraversando una fase critica. E per gli stessi motivi: un aumento sfrenato della popolazione, l’esplosione del numero delle costruzioni realizzate e lo svuotamento delle falde acquifere locali. Tutti problemi che in pochi anni causano criticità strutturali non secondarie. A questi si aggiungono i problemi sociali legati alle fasce più deboli della popolazione. In molte di queste città (si pensi al Brasile o a Nairobi, in Africa) si sono formati agglomerati “paraurbani” privi di infrastrutture. Lo stesso è avvenuto a Jakarta: sviluppi urbani “informali” che si raggruppano lungo i canali o sulle discariche, con baracche e abitazioni fatiscenti costruite alla meno peggio e continuamente a rischio di crollo. In queste zone molto spesso è inevitabile il peggioramento delle condizioni delle risorse idriche già inquinate all’inverosimile dalle fabbriche che scaricano tonnellate di rifiuti e sostanze chimiche nei corsi d’acqua, contaminando l’approvvigionamento di acqua potabile della città.
Oggi otto delle dieci più grandi megalopoli del mondo si trovano in Asia. E tutte presentano problemi analoghi: in cima alla classifica Tokyo, con 38 milioni di abitanti. Anche qui il suolo sta scendendo. E lo fa dieci volte più velocemente della spinta dell’acqua. Come sempre le cause sono legate principalemente all’attività umana (decenni di estrazione di acque sotterranee hanno visto Tokyo scendere due metri prima che venissero trovati rimedi almeno parziali a questo fenomeno). In questa classifica, dietro Tokyo si trovano Jakarta, Seul, Karachi, Shanghai, Manila, Nuova Delhi e Pechino. Qualche anno fa, nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Unione europea delle Geoscienze, Gilles Erkens dell’Istituto di ricerca Deltares, a Utrecht, nei Paesi Bassi, disse che Ho Chi Minh City, Bangkok e numerosi altri insediamenti urbani costieri (tra cui Jakarta) sarebbero affondati sotto il livello del mare a meno che non venissero presi provvedimenti.
Tutte le metropoli del mondo, non solo quelle asiatiche, presentano problemi legati alle infrastrutture, ai servizi (prima di tutto educazione e sanità), ai fondi per la gestione, alla sicurezza pubblica che chi le amministra, sia livello locale che nazionale, non è stato in grado di risolvere.
Fino a quando non diventa indispensabile trasferire la popolazione altrove.