Sono poche le fotografie d’autore che restano nella memoria: le confrontiamo istintivamente con la realtà che incorporano, o con gli originali che capita di vedere in retrospettive o in filmati.
Una di queste è “American Girl in Italy”, firmata da Ruth Orkin nel 1951 a Firenze. Mi era capitato di rivedere la foto appena qualche giorno fa, nella pizzeria italiana “Numero 28” al Village di New York, in Carmine street davanti alla chiesa scalabriniana della Madonna di Pompei. Appesa al muro, nel mezzo di una lunga serie di bianco e nero di un’Italia sparita, ma ben viva nella memoria dei nostri emigrati. Leggevo per la prima volta la didascalia, che non mi era mai prima capitato di notare: “American Girl in Italy”.
“Toh!” – ho pensato, “era quindi americana la lei così elegante oggetto di attenzione dei nostri maschi sotto tempesta ormonica. E mi è venuto spontaneo pensare che scene così non se ne vedono più tante: le città sono cambiate, di donne di quel tipo ne circolano sempre meno e, grazie ai Numi, anche di quei maschi. Oggettivamente, nei quasi settant’anni intercorsi, sono successe troppe cose tra i due sessi, e sono calate parecchio le ragioni per la contemplazione ammirata della femminilità da parte dei maschi. È scelta condivisa da entrambe le parti, nel gioco relazionale di genere.
E poi niente. Quella specie di pettegolezzo interiore era rimasto lì e mai avrei pensato di essere tirato nuovamente dentro l’argomento, per via della notizia battuta da Washington Post alle 19:09 del 3 maggio: “Ninalee Allen Craig, subject of iconic ‘American Girl in Italy’ photos, dies at 90”. Lei, se ne era quindi andata, ma la sua storia meritava il lungo e partecipato ricordo dell’autorevole quotidiano.
Non casualmente Ellie Silverman, che firma il coccodrillo, definisce la foto “iconica”: lei è una madonna che incede imperturbabile sul marciapiede di piazza della Repubblica a Firenze, tra la torma di maschi che la guardano, le fischiano, la chiamano. Trasluce noncuranza, come fosse un’astrazione in mezzo a tanta carnalità. Se ne contano quattordici di quei valorosi rappresentanti delle italiche genti, nullafacenti allegroni di ogni età e stazza, eleganti o beceroni, tutti con gli occhi che convergono sulla bella figura dalle braccia scoperte, la gonna al polpaccio, i sandaletti aperti con la fibbia allacciata. I più si appoggiano al muro con aria da sfaccendati, gli altri stanno sul bordo del marciapiede. Fanno ala a rispettosa distanza; solo due imbecilli irrecuperabili le sono quasi addosso, mentre esce dal marciapiede. Lei ferma lo scialle con la mano destra, mentre stringe la borsetta senza pretese nell’altra mano, i capelli raccolti. Gli occhi socchiusi e l’intero viso sono noncuranti per quanto accade: il marciapiede sta per finire e la cagnara sarà solo un ricordo, tra il divertito e il sorpreso.

Ellie Silverman racconta parecchio di come fosse nata la foto, e del contesto nel quale fu scattata. Il pezzo è interessante, come un piccolo trattato di sociologia sull’Italia del tempo e su quella di oggi.
È un mattino di agosto del 1951 e due ragazze statunitensi si incontrano in un hotel fiorentino da un dollaro a notte. La fotoreporter Ruth ha 29 anni e deve fare un pezzo sulle donne americane in viaggio all’estero, un fenomeno allora raro, anche per le emancipate tipe del nord America. Ninalee aveva 23 anni: studentessa, stava viaggiando in beata solitudine tra Spagna, Francia e Italia. Ruth la trovò sufficientemente alta, bella e luminescente, e le propose di essere il suo soggetto per il servizio. Doveva camminare come la Beatrice dell’Alighieri, le raccomandò, e le si mise dietro. Avrebbe raccontato al New York Times, ripreso ora dal Post, che tutto durò 35 secondi: due scatti in tutto, e la gloria eterna della foto indelebile.
Come sempre nelle fotografie d’autore, la bravura sta nel rendere “spontaneo” ciò che è “studio di posa”. Ruth Orkin avrebbe raccontato a Times nel 1995, come riporta il Post, che chiese ai due ragazzi in scooter di avvertire tutti di non guardare assolutamente verso la macchina fotografica. Cosmopolitan pubblicò l’anno dopo la foto in un servizio dal titolo “When You Travel Alone”, pieno di consigli su come risparmiare, trattare i maschi e tornare a casa sane e salve. Commentando la foto di Ninalee, precisava che gli “altri” uomini avevano verso le donne atteggiamenti diversi da quelli degli americani, ma che ciò non comportava necessariamente situazioni di pericolo. Il rituale del tutelage americano verso i cittadini che varcano i confini, petulante e impaurente sino all’ossessione, stavolta s’era dato dei paletti.
L’articolo del Washington Post merita attenzione, ricco com’è di dettagli, coincidenze, colpi di scena, tutti legati alla foto e ai personaggi che vi sono ritratti, per incontri casuali avvenuti successivamente, che includono matrimoni, divorzi, rapporti d’affari. Un concentrato d’umanità nel quadretto di neppure 20 tra attori e regia. La foto si è prestata, nei 67 anni di vita, a interpretazioni le più varie. Ha generato traumi famigliari (leggere il Post), scandali bacchettoni e deliziosi equivoci. Un ristorante di Filadelfia, lo scorso novembre, ha dovuto rimuoverla per le proteste degli avventori.
I giudizi più equilibrati sullo scatto (e sugli uomini fiorentini) li ha offerti la divertita Ninalee, alla quale l’episodio e l’ammirazione sconfinata dalla quale lei vi risulta ricoperta, sembrano non essere dispiaciuti neppure un po’. Ha sempre detto bene dei personaggi della foto e dei loro comportamenti, anche di quelli non proprio urbani (si guardi il tizio sulla sinistra che si porta una mano dove non dovrebbe). Ha avuto l’intelligenza di storicizzare lo scatto e di appiattirlo su luogo ed epoca.
Ha anche utilizzato il suo senso dell’umorismo per giudizi taglienti sui nostri tempi e su come la violenza abbia guastato il rapporto tra i sessi. Ha difeso le manifestazioni di ammirazione e corteggiamento, anche quelle fuori dalle righe, evidenziando che si è esagerato nel “politically correct” e nella sindacalizzazione dei rapporti umani. Nella citata intervista a Times diceva, tra l’altro: “Nel modo più gentile che posso, spiego che non si provava nessun senso di paura. Non vi era nessun pericolo, perché quelli erano tempi del tutto diversi dagli attuali”.