Siete un alto dirigente di un azienda, che fattura poco più di 3 miliardi di Euro l’anno. Per due anni e mezzo, fruite di una carta di credito aziendale, che ritenete di usare per le spese di rappresentanza (viaggio, ristorazione, pernottamenti), connesse alle vostre mansioni. Spendete 65.000 Euro, una media di poco più di 2000 Euro il mese, con un tetto disponibile di 5000. Accompagnate l’uso della carta con un rendiconto, l’azienda approva, e questo vi conferma nel vostro convincimento che l’uso è stato appropriato.
Ma una Procura della Repubblica avvia un’indagine, e vi contesta il delitto di peculato: perché l’azienda è pubblica, e si ritiene che le spese invece siano state ad uso privato. Voi non siete più voi, ma “l’imputato”. Il Tribunale di Roma, nel Febbraio 2013, però, assolve. Infatti, anche ad ammettere l’esclusiva natura privata delle spese, è innegabile che: a) la derivazione aziendale della carta; b) le occasioni, (di lavoro, connesso alla mansione) in cui avevano avuto luogo; c) la presentazione del rendiconto e delle pezze giustificative, senza che sorgessero contestazioni, considerate una per una e tutte insieme, costituivano un complesso di univoche circostanze tali da comprovare la buona fede “dell’imputato”; e accreditavano, ragionevolmente, la sua tesi difensiva: pensavo fosse un’integrazione delle mie spettanze: un benefit, nel linguaggio contabile.
Il Pubblico Ministero impugna l’assoluzione (“azione penale lunga”), e la Corte d’Appello di Roma, nell’Ottobre del 2014,“in riforma della gravata sentenza”, condanna l’imputato a due anni e sei mesi di reclusione. Il Procuratore Generale (PM “di secondo grado”) aveva chiesto una meno grave condanna: due anni di reclusione. La differenza non è solo quantitativa; già, essendo il peculato un delitto contro la Pubblica Amministrazione, seguiva l’interdizione temporanea dai pubblici uffici; ma, per condanne oltre i due anni, si determinano ulteriori effetti penali. Quali? Fra gli altri, se siete un parlamentare, per esempio, potrebbe anche essere dichiarata la vostra “incandidabilità sopravvenuta”, o “decadenza”, nel corrente slang paragiuridico: a norma della Legge Severino.
Voi, l’imputato, vi chiamate Augusto Minzolini: giornalista; al tempo “dei fatti”, Direttore del TG1, e che, nello stesso mese dell’assoluzione, era stato eletto Senatore della Repubblica, per Forza Italia; dopo la condanna, ricorre in Cassazione, sostenendo ancora il suo ragionevole convincimento in ordine alla natura delle spese, e alla derivazione/destinazione della carta di credito. Inoltre, nota, uno dei componenti della Corte di Appello che l’aveva condannato, era stato Sottosegretario in due diversi Governi di Centro-Sinistra: non si era astenuto dal giudicarlo; evidentemente non riscontrando, nella sua qualità di giudice di colui che era anche un suo avversario politico, una “grave ragione di convenienza”, come recita il Codice.
All’imputato, incensurato, non erano state riconosciute nemmeno le circostanze attenuanti generiche: le quali, per “diritto vivente”, da Aosta a Lampedusa, sempre sono ammesse in favore di “chi non ha riportato precedenti condanne”; giudizio singolare: tanto più che, subito dopo l’avvio dell’indagine penale, per non alimentare ulteriori questioni interpretative sulla natura delle spese, aveva restituito l’intera somma all’azienda; e, accantonando ogni altra questione sul reato, l’avere riparato il danno, quando si discute di denaro, per espressa previsione di legge, integra un’ulteriore, specifica circostanza attenuante. Se almeno questo fosse stato, osserva l’imputato-senatore, la condanna, senza altre valutazioni, avrebbe dovuto essere ridotta fino ad un terzo; dunque, per lo meno, sarebbe venuto meno il presupposto della possibile decadenza da senatore: come pure sarebbe avvenuto, se la Corte di Appello avesse semplicemente accolto la richiesta del Procuratore Generale, anzichè infliggere una pena maggiore di quella richiesta (si può fare: ma quando accade, in qualunque aula d’udienza accada, la perplessità è il minimo). La Corte di Cassazione, invece, rigetta su tutta la linea, e la condanna a due anni e sei mesi diventa definitiva. Sotto altro profilo giuridico, la Corte dei Conti, preso atto che la somma era stata restituita, aveva disposto, prima della stessa iniziale assoluzione penale, l’archiviazione del procedimento contabile, nel frattempo del pari avviato.
Giovedì, il Senato ha votato sulla decadenza del senatore Augusto Minzolini: simpatico o antipatico, eroico o servile, bravo o scarso (secondo ampia, ma qui irrilevante, possibilità di scelta); e, con 137 voti a favore e 94 contrari, ha ritenuto che non dovesse essere pronunciata. Non è stato un voto su ciò che resta della immunità parlamentare; dunque, non si doveva discutere di “sospetto di persecuzione”: anche se qualcuno dei senatori ha infondatamente lambito l’argomento.
Ma non era nemmeno un “atto dovuto”: perché, diversamente, la legge avrebbe ricondotto la decadenza semplicemente alla sentenza, come accade per la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici; ovviamente, una simile “legge” sarebbe un’abnormità formalmente tirannica, posto che farebbe dipendere la sovranità legislativa da “un automatismo” giudiziario; ci arriveremo, anche alla forma; ma, per ora, il malato grave non ha ancora tirato le cuoia. Perciò, meno che meno si è trattato di un “voto eversivo”, come ha sobriamente osservato l’On. Di Maio, Vice-Presidente della Camera, in quota Tribunale del Popolo.
L’illiberale e antidemocratica Legge Severino (e tale anche per il suo rimanente contenuto, fra cui spicca il “traffico di influenze illecite”), nel Novembre 2012, è stata votata dal Centro-destra: proponente, fra gli altri, l’attuale Ministro degli Interni, Angelino Alfano, oggi di Centro-sinistra. E, nemmeno un mese dopo, colmi di suicida solerzia, approvarono anche il Decreto Legislativo “di attuazione” sulla “decadenza”
E, allora, che è successo questa settimana al Senato?
Pare che alcuni schiavi, colpevoli in larga parte della loro stessa schiavitù, ma, soprattutto, di quella fatta cadere anche sul capo degli italiani (compresi quelli che, piuttosto illusi su quello che li aspetta, inneggiano a palingenesi carcerarie prossime venture), prima di consegnarsi al loro definitivo annullamento, abbiano avuto un pensiero da uomini.
Per una volta, l’ultima o la penultima poco importa, si sono ricordati che, per essere liberi, in fondo, basta volerlo.