“È stupefacente che la notizia sia stata data dalle agenzie solo pochi minuti dopo che io ho lasciato gli uffici della procura”. Così Antonio Ingroia, ex noto magistrato, oggi avvocato, a proposito della notizia circa l’interrogatorio da egli reso, un paio di giorni fa, alla Procura di Palermo: dove risulterebbe avviata un’indagine preliminare a suo carico per peculato ed altro. Non solo è stupefacente, ma è incivile; è il segno sicuro di una barbarie che si diffonde ogni giorno più rigogliosa; e nemmeno pare mostrare segni, anche minimi, di acquietamento.
Una barbarie che, se ormai liberamente rameggia per l’Italia, ha tuttavia un punto d’origine preciso, noto, riconoscibile. Nasce nei Palazzi di Giustizia, e, segnatamente, nei dintorni delle Procure della Repubblica: a dire poco, nei dintorni. Pertanto, l’horresco referens dell’Avv. Ingroia suona mutilo, imperfetto: giacché, in quei dintorni, egli ha lungamente assunto funzioni giudiziarie, e, dunque, sarebbe stato sommamente gratificante, utile, ed anche fecondo per i più giovani, che Egli almeno tentasse di attardarsi su un più vasto ordine di meditazioni, di valutazioni, di conclusioni. Esemplifico.
In un discorso al CSM, il 9 luglio 1998, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a proposito delle violazioni del segreto d’ufficio, già allora fatte assurgere al rango di consuetudine processuale, disse: “…io non parto ritenendo per forza che è il magistrato che ha violato il segreto, però nessuno mi costringe a ritenere che lo ha violato sempre e comunque il poliziotto, il carabiniere o quello che pulisce il pavimento, che è passato in quel momento…”. Come sappiamo, fra i magistrati italiani, fu l’unico ad ascendere al Quirinale; da dove fu anche incessante sostenitore della “Magistratura Riformata” da Mani Pulite: pertanto, insospettabile di squilibri valutativi in suo sfavore.
Sicché, quando si è acquisita, per pregresse esperienze, o intatta comunanza spirituale, una più compenetrata conoscenza della materia, volendo, si può estendere lo sguardo (Scalfaro, in effetti, dal 1946 in poi non scrisse un solo decreticchio che fosse uno; tuttavia potè ugualmente avanzare per tutti i gradi di carriera previsti, e, nel 1988, dopo 42 anni di ininterrotta vicenda parlamentare, andare in pensione quale “Magistrato di Cassazione con funzioni direttive superiori”: come per Legge e CSM).
Allora, anche Ingroia che, oltre la sola comunanza spirituale di cui godette Scalfaro, certo, con la magistratura, ha vissuto anche intense esperienze, avrebbe potuto cogliere l’occasione per soffermarsi, magari criticamente, su quella che si potrebbe chiamare “la mentalità del magistrato”.
Ora, quel porsi costantemente ed indefettibilmente quale vittima altrui, pure lì dove meno dovrebbe riuscire plausibile, se non altro per il rilievo della carente sorveglianza, come nei casi di “fughe di notizie”, coglie certo un aspetto di questa mentalità: lungamente e vastamente esibito, ad ogni latitudine, da non meno di due e più decenni. Ma c’è dell’altro. C’è quel postulare, con pari ingombro geografico e diacronico, quasi un’alterità morale verso ogni altro pubblico potere, e che, a molti, a troppi, e sempre più numerosi e mareggianti, ha fatto e fa dire, attraverso le “fughe di notizie”, e prima, e dopo di esse: ogni provvedimento? Un abuso; ogni spesa? Un ladrocinio; ogni chiacchierata? Un oscuro accordo. Una “mentalità” sempre cinta con la memoria dei martiri: sottratta alla comune venerazione, e invece ridotta a feticcio polemico, ad arnese mestierante. E lasciando, in questo modo, che intorno alla figura del magistrato sorgessero trasfigurazioni fantastiche: una figura astratta, disincarnata, eterea, fatta più di immagini che di azioni, più di superstizione che di conoscenza, più di superbia che di umiltà.
“Hotel a cinque stelle? Ne ho tutto il diritto, per l’incarico dirigenziale che svolgo”. “Sicilia E Servizi” è una società della Regione Siciliana, di cui Ingroia è Amministratore Unico . Nell’esercizio 2013, risulterebbero ricavi per 150.000 Euro, e 117.000 Euro di premio, oltre circa 50.000 euro di stipendio e i rimborsi previsti dal regolamento. Sull’indennità, sostiene Ingroia che, raggiunti certi obiettivi “…si tratta di un riconoscimento previsto dalla legge…e serve a integrare una indennità certamente non commisurata alle grandi responsabilità in capo all’amministratore…”; quanto alle spese, vivendo egli fuori sede, “la legge prevede…il rimborso delle spese di viaggio, ossia trasporto, vitto e alloggio, così confermato da più pronunce della Corte dei conti”. La Procura di Palermo sembra nutrire dubbi in proposito.
Per quanto interessa, si può invece serenamente muovere dal presupposto che sia tutto legittimo; non si discute nemmeno, anzi: qui si presume sempre la non colpevolezza, e senza sforzo, dato che è scritto nella Costituzione. S’intende: in quella, diciamo, vergine; non in quella oltraggiata e abusata da note prassi di illegalismo custodiale; da equivoche sottoculture emergenziali; da sequestri e confische antimafia a fondo perduto; da doppi binari antimafia; da triplici verità, antimafia e non (quella dell’innocenza originaria voluta dalla Carta Fondamentale; quella “svelata” da una qualche condanna; e quella che si può sempre “rivedere”, magari dopo vent’anni di macerazione concentrazionaria); da molteplici gradi di giudizio che, con la tenacia sinistra di un boia, “vincono” il “gargarismo” della presunzione di non colpevolezza, non per persuasione ma per estenuazione.
Ecco, a partire da questa vicenda di non avare indennità e rimborsi spese, pure non avari sembravano gli spunti, le occasioni, le possibilità per il pensiero, per lo spirito. E, invece, abbiamo sentito la secchezza della contabilità, il minimalismo documentario, l’etica regolamentare. Forse pochino per chi ha scaldato cuori partigiani, sognato rivoluzioni, processato la storia.
Non bisogna mai infierire. Nè mai dimenticare, però.