Breve premessa. In questi ultimi giorni, sta correndo violenta una polemica fra il M5S e Repubblica, in seguito alla nota vicenda degli SMS scritti e ricevuti dall’On. Di Maio. Ne era oggetto Raffaele Marra, già Vice-capo di Gabinetto del Sindaco di Roma, Virginia Raggi, in atto in custodia carceraria per corruzione ed altro. “Marra è uno dei miei”, avrebbe scritto Di Maio a Raggi, secondo Repubblica; no, replica Di Maio, il testo era: “sui miei, il Movimento fa accertamenti ogni mese”, quindi “L’importante è non trovare nulla”. Come a dire: “anche sui miei”, perciò anche su Marra, che pure non lo è. Aveva ragione il M5S. Repubblica ha provato a metterci una pezza, affermando, in una nota, che “un responsabile di turno ha modificato una frase del testo on line”. Insomma, ora abbiamo anche il giornalista “a sua insaputa”. Ne sono seguite reazioni violente e minacciose (“killeraggio”), non inconsuete da parte di M5S. Ma l’insinuazione e la parzialità travisante, caratteri costitutivi della nota maison giornalistica, sono essi violenza al sommo grado. E sono stati l’abbecedario di un avvelenamento violento che ha corrotto la coscienza critica di vari milioni di italiani, per almeno un paio di generazioni: e di cui M5S costituisce solo un’espressione epigonale. Sicchè questo, fra giornale “colto” e movimento “incolto”, appare solo un dissidio fra maestro e allievo. E, giusto oggi, ne abbiamo un altro clamoroso esempio. Fine della premessa.
C’è un video, infatti, presentato sulla prima pagina di Repubblica. Vi si può sentire il dott. Piercamillo Davigo, che ricorda, nel 25° anniversario, Mani Pulite. Dura 7’ e 19’’, ed è un monologo. Mi preme soffermarmi brevemente su due sue proposizioni, connesse.
La prima, in termini così perentori, non è molto usuale, ed è resa al minuto 5’:02’’: “nessun nostro detenuto si è suicidato, nessuno… questa è una della varie bugie che sono state alimentate”. Ne ricordo solo uno.
Nella notte fra l’8 e il 9 Marzo 1993 Gabriele Cagliari, Presidente dell’ENI, fu tratto in arresto. Era stato ordinato dal G.i.p. Italo Ghitti, su richiesta del Pool. Era accusato di corruzione e di violazione della Legge sul finanziamento dei partiti. Ammise, già all’inizio del suo primo interrogatorio, tutti i fatti posti a fondamento dell’ordinanza di custodia cautelare. Lo stesso giorno, si dimise da Presidente dell’Ente. Dal momento che la confessione era stata completa e spontanea, l’avvocato di Cagliari ne chiese la liberazione, o, in via subordinata, gli arresti domiciliari. Gherardo Colombo condusse il primo interrogatorio. L’11 Marzo, durante un secondo interrogatorio, Cagliari descrisse i negoziati che erano intercorsi, sul gas naturale, tra l’Algeria e una azienda dell’Eni, che aveva pagato un mediatore. L’episodio non gli era stato contestato ed era appena presente ai magistrati. Ciònonostante, il Pubblico Ministero espresse parere sfavorevole alla remissione in libertà, e il Giudice Ghitti in effetti la negò.
Il 16 Marzo fu ancora interrogato da Colombo; a questo punto, interviene Di Pietro. Cagliari aveva fornito spiegazioni particolareggiate sul finanziamento dei partiti politici da parte dell’ENI; e, pur non volendo in un primo momento accusare altri, poi cedette: identificando il mediatore di questi pagamenti: Francesco Pacini Battaglia, banchiere, il cui ruolo era stato, fino a quel momento, completamente ignorato. Dopo questo interrogatorio, l’avvocato di Cagliari presentò un’altra richiesta di remissione in libertà. Ancora rigetto.
Al 9 Giugno 1993, aveva già trascorso più di tre mesi nella sua cella, piena di detenuti. E, per quel “titolo” (la singola contestazione), i termini della custodia cautelare erano scaduti. Tuttavia, non ne era seguita la remissione in libertà, sia perchè il Gip Ghitti aveva emesso un’altra ordinanza di custodia cautelare in carcere; sia perché, il 26 Maggio, un altro magistrato del Pool, il dott. Fabio De Pasquale, aveva formulato un ulteriore richiesta custodiale: accolta da un altro Gip, il dott. Grigo, e fondata su un’ipotesi di illecita gestione dei contratti di assicurazione/vita dei dipendenti ENI. Per Cagliari, era allora cominciato un nuovo conteggio trimestrale, salva la revoca. Nel frattempo aveva compiuto 67 anni, e gli era morta la giovane nuora. Gli era stato comunicato che non si sarebbe potuto recare ai funerali, a meno che non avesse accettato l’umiliazione di partecipare ai funerali in ceppi, e sotto scorta armata.
Il 17 Giugno, Ghitti dispose gli arresti domiciliari per la sua seconda ordinanza. Ma rimaneva “in piedi” l’altra ordinanza di custodia in carcere, quella emessa dal giudice Maurizio Grigo. Il dott. De Pasquale, che ne aveva chiesto l’emissione indagando su ENI/SAI, era infatti tornato ad interrogare Cagliari: cercava quel nome, che allora non venne, ed espresse parere negativo: il Gip rigetta ancora. Il 15 Luglio, “l’indagato” chiese di essere interrogato di nuovo. Non accadeva da quasi un mese; sembrava che i magistrati, dal 17 Giugno, si fossero dimenticati di lui. Arriva De Pasquale. Cominciano alle 5:30 del pomeriggio.
Distrutto da una lunga detenzione, Cagliari aveva ora deciso di “arricchire” la sua confessione. Tuttavia, avrebbe rischiato di contraddire le sue precedenti dichiarazioni, sia nella loro dinamica interna, sia nel rapporto con le altre acquisizioni investigative. In questo contesto caotico, finalmente, Craxi fu menzionato. Quasi che Cagliari avesse voluto mandare un segnale: si stava piegando ad accusare altri, solo per ottenere la libertà.
Sembrava funzionasse, però. De Pasquale, con un commento piuttosto vibrante, apparve soddisfatto; a verbale rimase questa più asciutta dichiarazione: “La devo mandare a casa, anche se l’ultima parte non mi convince. Così c’è l’ha fatta a guadagnare la sua libertà”. L’interrogatorio si era concluso tardi, erano le 08:40. Così l’avvocato di Cagliari, confidando nell’annunciato parere positivo, il giorno successivo presentò l’istanza di scarcerazione (da L’Espresso, 1 Agosto 1993, pag. 52; di Chiara Beria D’Argentine e Leo Sisti). La mattina ancora dopo, l’avvocato di Cagliari, lesse il parere del PM su un giornale: ma era negativo. Domenica 19, Cagliari, da cinque mesi recluso, seppe. Nel frattempo De Pasquale era andato nella nativa Sicilia, per un periodo di vacanza.
La mattina del 20, lunedì, il giovane avvocato Luigi Gianzi, dello studio legale che difendeva Cagliari, varca la sala colloqui di San Vittore. Portava i due libri che “il detenuto” aveva chiesto. Attese per venti minuti. Chiese agli agenti di custodia di controllare. Per altri dieci minuti, ancora niente. Ma Gianzi non era preoccupato: Cagliari poteva essere in infermeria. Alle 10:15, si presentò il capo-turno preposto alla sala-colloqui, e gli disse semplicemente: “Mi segua”. Lo condusse dal Direttore del carcere, che lo informò. Probabilmente quella stessa mattina, Cagliari era andato nel bagno della cella, quindi, annodandosi un sacchetto di plastica in testa, si era ucciso soffocandosi.
La seconda proposizione che Davigo consegna a quel video, invece, è una sorta di costante, e si può udire al minuto 5’:10’’: “…dicevano che noi mettevamo la gente in carcere per farla parlare, non è vero… è vera però una cosa: che quando parlavano li mettevamo fuori, perché chi parla, chi collabora, diventa inidoneo a commettere questi reati” .
Probabilmente nella notte fra il 19 e il 20, Gabriele Cagliari aveva scritto una lettera alla moglie: “…La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati… ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, […]L’obiettivo di questi magistrati, quelli della Procura di Milano[…] è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi,… deve adottare un atteggiamento di “collaborazione”, che consiste in tradimenti e delazioni… i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica… Siamo cani in un canile, dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, o alcune ore prima… Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto: stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro stato autoritario… Io non ci voglio essere”.
Tre giorni dopo Cagliari, com’è noto, anche Raul Gardini fece la sua scelta. Non era detenuto; probabilmente temeva di diventarlo. Due diverse ispezioni ministeriale hanno escluso responsabilità disciplinari in capo ai magistrati. Peraltro, il suicidio rimane un mistero assoluto. E tale dovrebbe essere considerato sempre. Solo che il 24 luglio, Repubblica titolò: “Sangue sul Regime”. L’insinuazione mai sazia, che si fa violenza, orrenda maledizione: e siamo tornati al punto di partenza.
Tuttavia, che Davigo oggi insista col suo racconto, “nessun nostro detenuto si è suicidato, nessuno…”, sembrando negare persino quanto costituisce materia formale e indiscutibile, la detenzione e il procedimento, non finisce di stupire. Invece, non riesce a stupire che quel giornale glielo lasci dire, senza uno schizzo di nota a margine.
Forse verrà un tempo in cui certo cotè intellettuale ritrovi la via della decenza.
Ma fino a quel momento, di fronte al sempre più insistito sciamare di bocche che digrignano, di volti che schiumano, di verità retrattili, sarebbe meglio che taluni, certe pose da vittima della venticinquesima ora, neppure tentassero di assumerle.
Perché i nostri nonni dicevano: chi semina vento…